venerdì 1 gennaio 2016
Capodanno 2016
Auguri a tutti, in particolare a tutti gli amici. Mi trovo a letto in uno stadio praticamente terminale di un cancro al pancreas già in metastasi, e questa situazione mi ha ricordato alcuni appunti che avevo scritto di getto anni fa, e che ora mi sembrano attuali. Con l'occasione ho deciso anche di postare la storia della mia famiglia, alla quale finora l'accesso era stato limitato ai familiari.
Per una ecologia della morte
16 ottobre 1997 - Osservazioni sulla morte
Il cattolicesimo ha alcune formule piuttosto interessanti, come le “virtù teologali” e le “virtù cardinali”. Fra queste formule ci sono i “novissimi”. Io che non sono cattolico porrei i “novissimi” così: “realtà” – nascita – morte – “realtà”. Un’altra volta parlerò della realtà come la vedo io.
Della nascita ha parlato bene Judith Viorst in “Distacchi “. Ma sulla morte non ha detto nulla di penetrante né di convincente.
Tre osservazioni.
La prima è di analizzare la morte di quelle persone che ho visto morire bene: mio suocero e forse zio Angiolo; nonché di quelle che sarebbero morte bene se avessero potuto vivere la loro morte: nonna Giulia, mamma Luisa e zia Annamaria, che è morta di colpo.
La seconda è di analizzare la morte di quelle persone che ho visto morire male: mio padre innanzi tutto, forse Peppino Piemonte.
La terza è di vedere perché certe persone giovani hanno il terrore dell’idea della morte ed altre non l’hanno. Questo è del tutto indipendente dalla fede religiosa, che anzi non esorcizza né sublima la morte, ma secondo me aumenta e istituzionalizza proprio il terrore.
Il vero punto di partenza è di rendersi conto che nessuno è mai tornato indietro nel senso che interesserebbe qui. Non parlo solo in senso effettivo ma anche nel senso dei miti e della tradizione. Gesù Cristo è morto, è risorto ma non ha detto nulla della sua esperienza del durante e del dopo: e come poteva ? Era andato direttamente al suo posto di Dio! Lazzaro avrebbe potuto ma non ne ha parlato. Gli antichi come Orfeo o Ulisse o Enea avevano una idea dell’altro mondo che non ci serve, e comunque non hanno parlato mai dell’atto del morire, che è quello che mi interessa qui.
Allora si potrebbe tentare un approccio diverso, alla Desmond Morris. Cominciamo a vedere che idea hanno della morte gli animali. Poi vediamo che idea ne hanno gli uomini nelle società primitive e quindi per induzione gli uomini preistorici. Poi vediamo che idea ne hanno gli antichi e le persone delle classi socialmente e culturalmente inferiori.
Si potrebbe vedere che la morte è omogenea col nascere per molti aspetti, non solo perché vi è legata come causa ed effetto.
Forse potremmo accorgerci che la morte che intendiamo noi e della quale ci preoccupiamo e addirittura abbiamo terrore, non è quella fisiologica ma è un prodotto culturale.
4 luglio 2009 – L’anima - Il teorema del gatto
Secondo la bibbia Dio creò gli animali come il resto del mondo, e basta. Invece all’uomo, dopo averlo fabbricato, gli alitò lo spirito. Ciò significa che ab immemorabile noi consideriamo gli animali, anzi le bestie, come delle macchine o dei robot: questo è stato formalizzato nella scienza post settecentesca all’epoca del meccanicismo.
Quindi gli uomini hanno l’anima e le bestie no: sennò come facevamo a mangiarle, accettando che le bestie si mangiassero fra loro? Gli antichi mica avevano il concetto di catena alimentare (che ci permette di non essere vegetariani, come io non sono e non voglio essere). Del resto ogni volta che ha fatto comodo abbiamo deciso che gli schiavi non avevano l’anima, anzi forse nemmeno le donne.
A questo punto vorrei cercare di capire che cosa è l’anima. Siccome non sono interessato ai metodi aristotelici e della teologia, ma al metodo scientifico, proverei a cercare le differenze fra noi e gli animali.
Intanto tutto quello che l’etologia ci mostra essere in comune non attiene all’anima.
Nemmeno ciò che analogamente ci mostra la neurofisiologia.Ma nemmeno la trasmissione culturale dei comportamenti e delle conoscenze, è ormai provato dall’evoluzionismo culturale, è una nostra esclusiva. Noi siamo semplicemente situati al gradino più alto dell’intelligenza, che, secondo le religioni, negli animali sta tutta nel sistema nervoso. Perché noi dovremmo invece averla nell’anima? Sembra che la differenza la faccia l’autocoscienza. Ma in certa misura l’hanno anche gli animali. L’unica differenza essendo l’accoppiata coscienza-linguaggio.
A cosa ha portato questo plus? Alla possibilità di parlarci addosso con una grande sega mentale che si chiama filosofia. Non mi sembra sufficiente per avere l’esclusiva di un’anima immortale.
A questo punto, poiché dei problemi della filosofia l’unico reale è quello etico, rimane il teorema del gatto. Quale è la differenza fra me e il gatto: il libero arbitrio. Se l’anima si riduce a questo, la risposta è: il gatto può fare solo il gatto, io posso fare l’uomo oppure essere un quaquaraquà, cioè perdermi. Allora io faccio come il gatto: faccio l’uomo senza se e senza ma. Punto.
24 febbraio 2011 - Tre parole: patria, eutanasia, eugenetica
I romani avevano inventato la deletio memoriae e la applicarono almeno a Nerone. Era inutile perché oggi a noi dei delitti di Nerone non ce ne frega più niente. A volte però i grandi assassini oltre i loro delitti contingenti per quanto tremendi ne commettono altri che rimangono e perdurano nella storia e nel tempo. Il nazismo e il fascismo hanno stravolto per sempre il significato di tre parole: Patria, eugenetica, eutanasia.
Quando io ero ragazzo la Patria era veramente una parolaccia per tutti, ma non nel senso pubblico, politico: anche nel senso intimo e emozionale. Dopo lo sdoganamento della destra e di Fini e la sua fine politica, la parola Patria è stata ripresa e legittimata anch'essa, sdoganata. Ma nel farlo gli è rimasto l'odore dolciastro dei cadaveri; e si vede in questo 150º anniversario dell'unità, in cui si festeggia l'attribuzione a una dinastia indegna, che aveva conquistato militarmente l'Italia al di là della componente patriottica, che pur c'era nell'impresa dei Mille e dei meridionali che ad essa si erano associati. In queste celebrazioni centenarie sarebbe invece stata necessaria una vera cesura rispetto a tutti quanti i disastri che è stato il Regno d'Italia, non inferiore a quelli che dal Rinascimento in poi erano venuti per le divisioni, per la rivalità delle città, gli appelli agli stranieri fatti dai papi, eccetera eccetera. Mettere una cesura sarebbe stato necessario già dal 2 giugno '48, nella nuova Costituzione. Del resto i paesi civili (a parte la Francia che ancora non sa se festeggia il 1789 o il '92) hanno solo una data per festeggiare l'unità della nazione. Noi abbiamo il 4 novembre, abbiamo il 2 giugno, abbiamo il 25 aprile, abbiamo il 1 maggio, e adesso abbiamo pure il 17 marzo. Avremmo dovuto adottare solo il 2 giugno e proporre agli studenti e nelle trasmissioni della televisione, invece di queste cazzate del Risorgimento (che sono anche mistificate in larga parte), lo studio dei lavori preparatori della Costituzione. Si vedrebbe quello che è stato il miracolo dell'Assemblea Costituente che, partendo dall'assunzione dell'auctoritas (da parte della Consulta) convocò i comizi elettorali. Si mostrerebbe poi la qualità di quegli uomini che, pur nella opposizione di interessi (alcuni dei quali cinici e certamente non legittimi) comunque riuscirono a conciliarli in una costituzione, oggi assolutamente da aggiornare, ma che allora è stata la più bella costituzione del mondo.
Abbiamo poi il guaio della eutanasia, che suscitata dal caso Englaro ha permesso agli atei devoti per farsi, per ingraziarsi una chiesa inqualificabile di arrivare oramai alle soglie della legge sul cosiddetto testamento biologico, cosiddetto perché non lo è. Ma la cosa più grandiosa e che poi durerà certamente ancora di più nel tempo è il fatto che il movimento per recuperare il valore pulito della parola eutanasia ha spinto la Chiesa cioè ha svegliato il can che dormiva per passare dalla visione di San Tommaso alla visione dell'embrione come persona e da lì probabilmente non riusciremo più a trarci d'impaccio.
Sabato 5 marzo 2011 - Testamento biologico
E’ attualmente in discussione alla Camera la legge Calabrò, sul cosiddetto “testamento biologico”.
Dopo la morte di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, la volontà di formalizzare le “ dichiarazioni anticipate di trattamento di fine vita” si era fatta pressante.
Mi sarebbe sembrato sufficiente codificare le modalità di rilascio e di registrazione della dichiarazione, e lasciare che alla fine i medici, in scienza e coscienza, si regolassero come avevano da sempre fatto.
Ma i politici hanno deciso che occorreva mettere dei paletti, vanificando l'autodeterminazione della persona sulla propria vita e sulla propria morte.
Il capolavoro è stato (art. 3/5) quello di vietare il rifiuto dell’alimentazione ed idratazione forzata, pittorescamente presentata al pubblico come “mangiare e bere”, equivalente di imboccare un malato col cucchiaino. Se gli “atei devoti”, capofila dell’idea, pensavano di fare un favore alla Chiesa, credo le abbiano offerto un boccone avvelenato, dopo quello della legge 40 sulla fecondazione assistita.
Il dibattito che ne è conseguito mi ha fatto sorgere, per simmetria, analoghe considerazioni a proposito della nascita e mi sono accorto che anche la gestione della nascita si è allontanata dal comune sentire del secolo scorso.
Quello che mi interessa in questo momento è una riflessione generale.
Ora vorrei aprire due parentesi, che mi servono per dare chiarezza alla tesi che voglio proporre.
Mi richiamo alla formalità della teoria degli insiemi (Picone, Analisi matematica I): se considero un insieme di eventi (per esempio gli innumerevoli eventi della vita), posti ordinatamente in un intervallo, l’insieme può essere aperto o chiuso a seconda che gli estremi (nel nostro caso la nascita a sinistra e la morte a destra dell’intervallo) facciano parte dell’insieme o no. Se l’intervallo è aperto e gli eventi sono infiniti, si raggiunge la frontiera con la teoria dei limiti.
La frontiera destra e sinistra rappresentano due “stati di eccezione”. Con questa espressione mi rifaccio al Giorgio Agamben di “Stato di eccezione”.
Questo concetto è usato in filosofia del diritto (e discipline affini) per segnalare un caso di aporia fra la vigenza della legge ed il suo cambiamento che, in modo molto sottile, porta alla discussione se il cambiamento della legge sia ancora un fatto giuridico oppure no. E qui si richiama il diritto dei romani per la distinzione fra “auctoritas” prerogativa del senato e “potestas” prerogativa dei consoli, dei dittatori e poi degli imperatori.
A me sembra che questi concetti possano essere utilmente estesi alla vita dell’individuo: credo che la medicalizzazione della nascita e della morte, almeno nel mondo sviluppato, abbia espunto dalla vita questi due eventi ineluttabili, che prima ne facevano parte integrante. In altri termini mi sembra che la vita non sia più un intervallo “chiuso”, ma “aperto”
Il mio tentativo è di spiegare all’interno di queste premesse il significato profondo della trasformazione che stiamo vivendo.
Fino a non molto tempo fa, l'uomo trascorreva tutta la vita sotto il controllo della potestas (del “pater familias” o del padrone o della legge), ma affrontava i due grandi misteri della frontiera della vita, cioè la nascita e la morte, sotto l'egida della auctoritas.
Vale forse la pena di ricordare, a vantaggio dei più giovani, quale sia stato da sempre il rapporto della vita con la nascita e la morte.
Per comodità mi riferisco ai costumi della società cattolica italiana, quale io l’ho conosciuta nella mia giovinezza; ma ovviamente tutte le civiltà hanno i loro riti di ingresso e di commiato.
Fino alla prima metà del secolo scorso, la normalità era di nascere in casa nel letto della mamma e morire in casa nel proprio letto. L’ospedale era in entrambi i casi un’eccezione, sfortunata.
La vita iniziava nel momento in cui ai maschi veniva intimato l'extra omnes, mentre le donne di casa, la levatrice e le vicine incominciavano a scaldare l'acqua. Durante il travaglio esse esercitavano l’”auctoritas”. La nascita, e quindi lo stato di eccezione, finiva nel momento del primo vagito e il bambino, pur rimanendo affidato per alcuni anni alle cure delle donne, entrava sotto la “potestas” del “pater familias” (che infatti si chiamava patria potestà), cioè della legge. E San Tommaso era tassativo nel riconoscere questo momento come l’inizio dell’ individuo (a prescindere dal rispetto dovuto all’embrione)!
Il battesimo, che faceva parte del rito della nascita e chiudeva un breve prolungamento dello stato di eccezione, nelle buone famiglie cattoliche si impartiva prestissimo (nella nostra famiglia tutti siamo stati battezzati il giorno dopo). Adesso si battezza dopo mesi, perché si deve fare un grande pranzo, perché la mamma deve essere in forma, elegante e pronta pure lei per la “mangiata”. Poi ci devono essere un sacco di regali. Qui tutto è importante meno che il sacramento: non è più il rito d'ingresso, è un'altra cosa. Per inciso la stessa cosa vale per la prima comunione, per la cresima e per il matrimonio: ma questo è un altro discorso
Ora si nasce in ospedale: la nascita è medicalizzata. E se l’inizio della vita si deve pur sempre collocare a sinistra del campo, la frontiera si deve allontanare asintoticamente verso un punto situato nove mesi a sinistra: essa non è più la nascita ma il concepimento. Che non si può solennizzare perché nessuno ha registrato quel momento e il battesimo solennizza questo ingresso nella vita quando è avvenuto già da nove mesi. Ora la nascita è un punto esterno all’intervallo e non è più uno stato di eccezione e si esercita sotto la “potestas” dei medici.
(L’unico fatto positivo é stato per me, come ora per molti altri padri, essere stato consapevole della paternità avendo assistito al parto, e non progressivamente nel tempo come era prima: mi sembra molto bello, ma è un po’ poco rispetto ai disastri su cui stiamo riflettendo.)
A sua volta la fine della vita cominciava quando si chiamava il prete per l'estrema unzione e, se il malato era in grado di riceverla, anche per l'ultima comunione che non a caso si chiamava il “viatico”. A nessuno sarebbe sembrato possibile evitare questo rito per non impressionare il malato: il malato era cosciente che stava per morire e il prete formalizzava la sentenza (addolcita dalla possibilità che la grazia sacramentale potesse farlo guarire). Il sacerdote non esercitava una "potestas", esercitava una "auctoritas". Noi invece viviamo ora sotto l’imperativo di diventare longevi a qualsiasi costo: snelli, scattanti e possibilmente belli. Questo non è per mantenere efficienti gli strumenti della parola, dell’udito, della vista, delle gambe, necessari alla permanenza della coscienza. La ragione è solo quella di esorcizzare la morte ed allontanarla asintoticamente verso un punto che non fa più parte della vita. Naturalmente noi solennizziamo ancora la morte. Si, ma con il funerale (e quell'orrenda nuova usanza degli applausi), quando l’interessato non c’è più.
La morte è completamente espropriata ed è ormai un concetto solamente medico: topologicamente l’ospedale costituisce la frontiera destra del campo.
E a conferma credo che il sacramento dell’estrema unzione sia oggi piuttosto desueto.
Anche la morte non è più uno stato d’eccezione e all’auctoritas del rito si sostituisce la potestas del medico e della legge sul fine vita: si muore col permesso della legge!
Tutto questo a me sembra il simbolo della tragedia che ha travolto troppi dei significati della nostra esistenza per affidarli ai vari talk show e reality che stanno perfezionando l'alienazione dell’homo videns occidentale.
Non sarò per caso un ateo di rito cattolico preconciliare?
12 ottobre 2011 – Il momento della morte e della nascita Ho capito il perché la Chiesa abbia senza atti solenni e formali, ma quasi in sordina, cambiato il momento della morte e della nascita. Per un creazionista l’anima viene immessa in un momento singolare e tolta in un momento altrettanto singolare. Per un evoluzionista la vita si determina in un processo continuo e anche la morte avviene progressivamente, basta pensare alle malattie neurodegenerative e salvo casi eccezionali: lo stesso infarto forse non è così istantaneo. Certo se vengo giustiziato con la zampa di un elefante forse la cosa è praticamente istantanea.
Finchè era accettata dai popoli del Libro la descrizione della creazione di Adamo, il feto era un pupazzo di argilla e l’uomo era di nuovo tale: “memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris”. Ma nel momento che il bambino diventa tale a poco a poco nel corso della gravidanza e l’uomo muore non istantaneamente occorreva determinare un nuovo istante per la creazione dell’anima e per la sua entrata nell’eternità. Così senza tanto chiasso e smentendo in sordina S.Tommaso la nascita avviene al momento della fecondazione ed è stata accettata senza strilla la morte cerebrale al posto di quella cardiaca!
23 novembre 2011 Un mio amico diceva sempre: “oggi ci siamo, domani non ci sarete”!
Al di là della battuta, posto che l’unica cosa certa è la nostra morte e che la vita tutto sommato è anche breve, a me sembra che la curiosità sul dopo, che esprime molta gente, sia solo una forma di ansia.
Se invece ci chiediamo perché dalla notte dei tempi la domanda del dopo è stata posta anche con molta serietà è solo perché ha il risvolto morale, cioè sul nostro comportamento in vita.
Ora se non c’è nulla, pazienza, se c’è qualcosa di serio è meglio essersi comportati bene “veluti si deus daretur”, e qui si inserisce il “teorema del gatto”.
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RispondiEliminaCarissimo amico mio e di Andrea, quanta matematica sapienza nelle tue riflessioni ed argomentazioni ontologico-etiche, e quanto rigore sarcastico ed amaro nelle tue deduzioni.
RispondiEliminaIl teorema del gatto mi ha fatto sorridere nella sua straordinaria emblematicità e fa capire nel quasi sillogismo la profondità del tuo messaggio. Niente quaquaraquà sciasciano! Ma di questo io sono stata sempre sicura: nella ironia emerge la sciabolata dei tuoi pensieri!
Credimi, ho letto con la solita mia ammirazione, a volte se ricordi, spaesata dalla logica incontrobattibile del tuo argomentare, il tuo "diario" o meglio, il tuo Zibaldone di pensieri, e, stà sicuro, lo rileggerò ancora e leggendolo, tu continuerai a vivere nella mia memoria insieme ad Andrea, mai dimenticato. La mia cultura classica e la mia forma mentis non mi fornisce le stesse tue armi aguzze; certo, in Lucrezio e Leopardi le risposte ai nostri dubbi ed interrogativi sulla morte si trovano.
Ma io ti vorrei dare come viatico le parole di Socrate che troviamo nell'Apologia di Socrate di Platone. Socrate, condannato a morte da Trasibulo "perchè corrompeva i giovani", ha bevuto la cicuta ed è prossimo a morire. I suoi discepoli stanno intorno al suo letto, non vogliono lasciarlo solo nel momento del trapasso. Allora Socrate si rivolge a loro con queste parole: "Ma è giunta ormai l'ora di andare, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada a miglior sorte,nessuno lo sa, tranne il Dio".
Ti saluto con grande affetto.
Anna Mina