Premessa - L'Italia dal dopoguerra alla globalizzazione: il punto sulla situazione.
Cominciamo dalla fine. Sia i media, sia i politici (nazionali ed internazionali) si basano ancora sul tabù dello sviluppo rimasto inalterato dai tempi delle prime teorie economiche elaborate nel settecento. Malgrado tutti i perfezionamenti teorici e formali, si finge di ignorare che il concetto di sviluppo ha un sottostante postulato, cioè che la terra sia illimitata come capienza per la popolazione e disponibilità di risorse agricole ed estrattive: diretta conseguenza è sempre stato (dopo aver cancellato Malthus) il considerare l'aumento di popolazione come un fatto positivo (anche a prescindere dalle imbecillità del "numero è potenza "). Infatti l'incremento di popolazione comporta un elevato rapporto fra la popolazione attiva e la parte passiva, vecchi bambini e finora donne. Esistono teorie basate sullo steady state, ma bisogna andarle a cercare e non fanno parte della ideologia ufficiale. Basti pensare a come il rapporto del MIT per il Club di Roma è stato in questi quarant'anni contrastato e/o ignorato.
La recente crisi dalla quale non sembra si stia uscendo, è stata il primo segnale che la globalizzazione è ormai totale e che siamo arrivati a scontrarci con i limiti del pianeta. L'Italia è arrivata a questo appuntamento nelle peggiori condizioni: politiche, sociali, sindacali, economiche. Per questo sono persuaso che da questa crisi usciremo molto male, con un differenziale negativo rispetto agli altri paesi sviluppati, come del resto lo abbiamo sempre avuto per la maggior parte dei 150 anni dall'Unità. Fa eccezione il breve periodo del miracolo economico, periodo che, temo, sia irriproducibile in quanto legato strutturalmente alla situazione psicologica del dopoguerra. Vorrei analizzare la vicenda italiana partendo di lì.
Cominciamo dalla fine. Sia i media, sia i politici (nazionali ed internazionali) si basano ancora sul tabù dello sviluppo rimasto inalterato dai tempi delle prime teorie economiche elaborate nel settecento. Malgrado tutti i perfezionamenti teorici e formali, si finge di ignorare che il concetto di sviluppo ha un sottostante postulato, cioè che la terra sia illimitata come capienza per la popolazione e disponibilità di risorse agricole ed estrattive: diretta conseguenza è sempre stato (dopo aver cancellato Malthus) il considerare l'aumento di popolazione come un fatto positivo (anche a prescindere dalle imbecillità del "numero è potenza "). Infatti l'incremento di popolazione comporta un elevato rapporto fra la popolazione attiva e la parte passiva, vecchi bambini e finora donne. Esistono teorie basate sullo steady state, ma bisogna andarle a cercare e non fanno parte della ideologia ufficiale. Basti pensare a come il rapporto del MIT per il Club di Roma è stato in questi quarant'anni contrastato e/o ignorato.
La recente crisi dalla quale non sembra si stia uscendo, è stata il primo segnale che la globalizzazione è ormai totale e che siamo arrivati a scontrarci con i limiti del pianeta. L'Italia è arrivata a questo appuntamento nelle peggiori condizioni: politiche, sociali, sindacali, economiche. Per questo sono persuaso che da questa crisi usciremo molto male, con un differenziale negativo rispetto agli altri paesi sviluppati, come del resto lo abbiamo sempre avuto per la maggior parte dei 150 anni dall'Unità. Fa eccezione il breve periodo del miracolo economico, periodo che, temo, sia irriproducibile in quanto legato strutturalmente alla situazione psicologica del dopoguerra. Vorrei analizzare la vicenda italiana partendo di lì.
1963 - L’anno in cui si verificarono alcuni eventi che, come il battito d’ali della farfalla in Cina, innescarono la sequenza di errori che hanno portato al presente disastro. Che non è ancora completo!
Di seguito riporto, in base ai miei ricordi personali alcuni dei fatti e delle sequenze che a mio avviso giustificano l’assunto. Il motivo è che sento continuamente dire, specialmente dai media, che i guai presenti non sono cominciati oggi, ma da venti anni. Non è vero: sono cominciati quasi cinquanta anni fa. Temo che ormai sia rimasta pochissima gente che ha vissuto e può ricordare quei tempi e quindi come sopravvissuto mi propongo di darne testimonianza. Tuttavia tralascerò di ricordare alcuni guasti che ho visto da vicino, come la calata dei socialisti nell’ENI negli anni ottanta, lo scandalo dei soldi dati alla “casta” fra rimborsi e vitalizi e tanti altri fatti che, per riguardare tempi abbastanza recenti, dovrebbero essere presenti anche a quelli più giovani di me.
Di seguito riporto, in base ai miei ricordi personali alcuni dei fatti e delle sequenze che a mio avviso giustificano l’assunto. Il motivo è che sento continuamente dire, specialmente dai media, che i guai presenti non sono cominciati oggi, ma da venti anni. Non è vero: sono cominciati quasi cinquanta anni fa. Temo che ormai sia rimasta pochissima gente che ha vissuto e può ricordare quei tempi e quindi come sopravvissuto mi propongo di darne testimonianza. Tuttavia tralascerò di ricordare alcuni guasti che ho visto da vicino, come la calata dei socialisti nell’ENI negli anni ottanta, lo scandalo dei soldi dati alla “casta” fra rimborsi e vitalizi e tanti altri fatti che, per riguardare tempi abbastanza recenti, dovrebbero essere presenti anche a quelli più giovani di me.
Alla fine di ottobre del 1962 era morto Enrico Mattei. Giuseppe Saragat (l’anno dopo sarebbe diventato Presidente della Repubblica) era ministro degli esteri con Fanfani. Insieme a Moro aveva ormai varato la nuova era del centro-sinistra, ed era già legge la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’ENEL andava strutturandosi.
In quell’anno io ero ancora alla centrale nucleare di Borgo Sabotino (LT) e, mano a mano che si completava il commissioning, stavo firmando i verbali di passaggio degli impianti dall’Agip Nucleare all’ENEL.
L’ENEL fu una delle tante sciocchezze provocate dai socialisti negli ultimi centocinquant’anni. Purtroppo anche i radicali (spesso benemeriti per importanti iniziative) furono fra i sostenitori della nazionalizzazione. Per superare i problemi dovuti al frazionamento della produzione elettrica nel nostro paese (1270 imprese esercenti) e avere in mano le leve di controllo della politica energetica, sarebbe stato sufficiente adottare l’idea di Mattei: nazionalizzare le linee di distribuzione (del resto la rete interurbana del telefono era pubblica da sempre). Ci sono voluti altri quarantacinque anni per vederla attuata con la costituzione di Enel Linee Alta Tensione S.r.l., oggi Terna. Il cuore del disastro fu la scelta delle modalità di assorbimento delle vecchie aziende e di indennizzo alla proprietà. Trovo conferma su wikipedia che: “Vinsero le posizioni di Guido Carli, governatore della Banca d'Italia e l'indennizzo fu immediato. La posizione di Riccardo Lombardi chiedeva invece la dilazione in quattro anni dei pagamenti, da garantirsi con obbligazioni. Per ottenere l'adozione del suo piano, Carli minacciò le dimissioni, che avrebbero gettato il Paese nel caos a causa del gravissimo attentato alla credibilità del sistema politico-economico che un simile atto avrebbe rappresentato in ottica anche internazionale.” Questa scelta provocò l’immissione sul mercato di una massa di liquidità che l’industria italiana non era in grado di assorbire e portò quindi, per la prima volta, alla finanziarizzazione della nostra economia. Gli amministratori di vertice degli ex monopolisti, un mio amico di allora li chiamava “industriali della bolletta”, si trasformarono in finanzieri e iniziarono a comprare di tutto,molte aziende decotte o che erano incapaci di gestire. La conseguenza fu allora l’innescarsi di un’inflazione che non doveva fermarsi per moltissimi anni, fino a quando Craxi ebbe la bella pensata di sostituirla con il debito pubblico à gogo, e questo non si è fermato più. Allora nacquero anche le premesse di quel futuro disastro che fu l’EGAM, e poi le manovre societarie sulla chimica italiana con la nascita della Montedison ed in seguito dell’Enimont, che portarono alla decadenza e poi alla scomparsa della nostra industria chimica di base. Effetto secondario della cogestione del momento, oltre che del cinismo di alcuni, fu anche la sciagura del Vajont (1963).
L’ENEL fu da subito un carrozzone, perché tutte le strutture operative delle vecchie società (prescindendo se si trattava della Edison, o di una piccola società di provincia) confluirono nel nuovo ente indiscriminatamente, con qualifiche e retribuzioni promosse anche all’ultimo momento. Essere dipendenti dell’ENEL ,per molti anni, significò stare in un ventre di vacca: dirigenti in eccesso, qualifiche gonfiate, stipendi sproporzionati! Poi il turnover rimise le cose a posto e mano a mano, con i nuovi assunti, le relazioni industriali rientrarono nei parametri.
Nello stesso periodo furono rinnovati i contratti collettivi di lavoro. Ultimamente RAI storia ha mandato in onda un vecchio documentario del 1963: “viaggio nell’Italia che cambia” di Ugo Zatterin. La cosa che colpisce lo spettatore di oggi è che allora c’era la piena occupazione e i datori di lavoro intervistati dichiaravano di avere difficoltà a trovare mano d’opera .
Fra i meccanismi che hanno consentito lo sperpero a pioggia di risorse pubbliche devo qui ricordare la Cassa del Mezzogiorno. Questo ente fu istituito in tempi virtuosi, nel 1950, e di certo contribuì positivamente ad incidere sulla questione meridionale, che ci trascinavamo dall’Unità. la legge istitutiva del 10/08/1950 n°646 all’art.1 stabiliva “un piano generale per la esecuzione, durante il decennio 1950-60, di opere straordinarie dirette in modo specifico al progresso economico e sociale dell'Italia meridionale, coordinandolo con i programmi di opere predisposti dalle amministrazioni pubbliche.” In origine i compiti erano delimitati come segue: “Il piano suaccennato riguarda complessi organici di opere inerenti alla sistemazione dei bacini montani e dei relativi corsi d'acqua, alla bonifica, all'irrigazione, alla trasformazione agraria, anche in dipendenza dei programmi di riforma fondiaria, alla viabilità ordinaria non statale, agli acquedotti e fognature, agli impianti per la valorizzazione dei prodotti agricoli e alle opere di interesse turistico.” Però poi la legge subì numerose varianti e fu estesa agli investimenti privati con incentivi a fondo perduto calcolati in percentuale dell’investimento Non sono riuscito a reperire i dati, ma a mia memoria sono praticamente certo che la percentuale sia arrivata anche al 50%. Con il progredire della contiguità della politica con gli affari negli anni sessanta e settanta,questo meccanismo, che fino allora era passato abbastanza inosservato si rivelò perverso. Spesso gli studi di fattibilità erano fantasiosi, i preventivi di investimento sistematicamente raddoppiati, le fatture di appoggio gonfiate e spesso di comodo, a volte anche false. In questo modo, investendo in realtà metà del preventivo si poteva ottenere l’intero contributo: cioè fare l’investimento gratis. Se poi la società falliva perché l’analisi dei costi di esercizio e lo studio di mercato erano stati sbagliati, non pagava nessuno. Con questo meccanismo la “Città dei polli” sulla via Pontina fallì e passò di mano più volte. Con l’apertura della tratta Roma Napoli dell’autostrada del sole nel 1963 i dintorni di Frosinone (ed in particolare la zona di Patrica dove nel 1964 lavoravo) esplosero letteralmente di iniziative. Molte poi si tramutarono in cimiteri industriali.
Già nel 1965 ci fu la prima crisi. Persi il lavoro e feci molta fatica a trovarne un altro e a stipendio dimezzato. Ricordo che, quale diretta conseguenza della piena occupazione, era raro trovare un dipendente senza un assegno ad personam in busta paga. Poiché gli assegni ad personam erano riassorbibili per futuri miglioramenti contrattuali, i sindacati ebbero gioco facile nel concordare con le organizzazioni datoriali un generoso aumento dei minimi contrattuali: naturalmente tutti gli assegni ad personam furono immediatamente riassorbiti. Sembra che al momento nessuno si accorse che era stata posta la base per eliminare progressivamente il concetto di “merito”. Un effetto secondario fu un’altra distorsione: poiché tutti i lavoratori andavano inquadrati nel contratto collettivo di settore e i contratti non avevano oneri eguali a pari livello di inquadramento, era antieconomico avere mano d’opera diretta per mansioni non strategiche (pulizie, guardiania, ecc.), che potevano essere inquadrate in contratti meno ricchi. Per esempio in una azienda elettrica, un muratore era comunque un operaio qualificato, ma costava molto di più con il contratto elettrico che con quello edile. Fino allora la soluzione era stata di dare all’elettricista l’assegno ad personam e non darlo al muratore. Dal nuovo contratto diminuì progressivamente la verticalizzazione delle aziende (che era stata incoraggiata da esigenze di razionalizzazione, ed anche dal regime distorsivo dell’IGE) e ci si indirizzò verso l’esternalizzazione e i subappalti. Questa fu la premessa per il lavoro nero e il precariato nelle aziende di servizi e aumentò anche l’incidenza dell’IGE (almeno fino all’adozione dell’IVA nel 1973).
Naturalmente quello fu solo un sassolino: per diventare una valanga era necessario dell’altro e nel 1970 arrivò lo statuto dei lavoratori! Non potendo più licenziare, esternalizzare divenne una necessità assoluta.
Nel frattempo c’era stato il ‘68, che nel mondo ebbe l’effetto di una malattia esantematica: vaccinò e passò. In Italia è diventata una grave malattia cronica. L’effetto più evidente si è avuto nella scuola. Cominciarono gli studenti di architettura a Valle Giulia. Vinsero e ottennero gli esami di gruppo e il trenta facile. Ma nel tempo ai baroni universitari, bravi, dinastici e famigliaristi, un po’ mafiosetti e oppressivi si sono sostituiti altri baroni, con le stesse caratteristiche ma meno bravi. E finalmente nel ’69 è arrivata la liberalizzazione degli accessi all’università, la moltiplicazione dei corsi di laurea e delle pseudo specializzazioni. L’invenzione del 3+2 oggi è difesa anche come esigenza di omogeneizzazione europea, ma a me sembra una cosa sbagliatissima. In un paese dove quasi mai il titolo specifico dà uno sbocco di lavoro corrispondente, il vecchio ordinamento insisteva molto sulla più approfondita preparazione di base e solo negli ultimi anni dava nozioni di indirizzo settoriale, che valevano più come traccia che come preparazione operativa. Poi durante la vita lavorativa “sapevamo di non sapere”, ma eravamo in grado di andare a cercare le nozioni di approfondimento dove stavano. Mi ha molto colpito una frase di un signore, quasi della mia generazione: una volta non si parlava di “saperi” ma di “sapere”. C’era evidentemente ancora l’unità della cultura. Naturalmente lo sfascio è “sceso per li rami” e la scuola secondaria è diventata in molti casi una barzelletta. Per superare una scuola di classe che, per i ceti meno abbienti,non assicurava il diritto allo studio ai giovani di eccellenza, si è prodotta una scuola dove tutti possono arrivare con meriti minimi all’università e lì trovare una pseudo laurea. E’ pur vero che poi si è tentato, specie in tempi recenti, di porre rimedio, ma a me sembra con azioni pasticciate, spesso contraddittorie, vanamente inseguendo i buoi già usciti dalla stalla.
Nel 1973 (guerra del Kippur) ci fu la prima crisi petrolifera seguita nel 1979 (rivoluzione iraniana) dalla seconda crisi petrolifera. Qui è bene aprire una parentesi: l’Italia, dal tempo dell’unità, era l’unico paese in via di sviluppo e poi industrializzato, ad essere totalmente privo di fonti di energia. Noi siamo partiti con l’energia animale e con un po’ di torba e lignite, che non spostavano il problema. La I° guerra mondiale ci costrinse ad importazioni di carbone enormi, che forse furono il nostro primo pesante debito verso l’estero. L’unica vera rivoluzione energetica fu l’idroelettrica: credo che negli anni ’30 avessimo raggiunto quasi l’autosufficienza, dopo aver elettrificato il trasporto pubblico (tram, filobus, ferrovie). Comunque alla fine degli anni ’50 le potenzialità dei nostri bacini erano praticamente esaurite (oggi l’idroelettrico contribuisce col 15,8 % del fabbisogno totale). Dopo “l’atomo per la pace” (Ginevra 1955) la prima risposta alla richiesta di energia venne con le centrali di Latina, Garigliano, Trino Vercellese e poi di Caorso e Montalto di Castro (che col referendum non fu “riconvertita” ma smantellata). Nel 1986 ci fu il disastro di Cernobyl. Si trattava di una centrale progettata e costruita con tecnologie inadeguate, gestita da incompetenti e fatta esplodere per eseguire un esperimento progettato e condotto da folli. Ma grazie all’emotività cavalcata dai nostri giornalisti, che sono maestri del pressappochismo e degli effetti di colore, con la promozione ad esperto di tecnologie nucleari di un modesto esercitatore di meccanica razionale (cito Edoardo Amaldi), evitando accuratamente l’intervento dei docenti universitari di impiantistica nucleare (p.e. il prof.Mario Silvestri), malgrado le centrali italiane non avessero mai dato fastidi, si giunse trionfalmente al referendum del 1987. Da allora il nostro sviluppo ha inseguito irrimediabilmente i prezzi del petrolio (e dell’energia nucleare vendutaci dai francesi). Cerchiamo di capirci, io non sostengo che oggi bisognerebbe tornare al nucleare: probabilmente il nucleare è morto per ragioni economiche (Alberto Clò – Si fa presto a dire nucleare) e nel frattempo le tecnologie per le fonti rinnovabili sono progredite enormemente. Ma allora le nostre centrali erano convenienti e le rinnovabili ancora un’utopia. La centrale di Latina costò circa 20 miliardi di lire,equivalenti a 140 milioni di euro, e fu realizzata in sei anni. Non so quanto costassero Caorso e poi Montalto, ma non ricordo che allora le obiezioni fossero di carattere economico. Senza quel referendum avremmo potuto aspettare lo sviluppo delle energie rinnovabili, senza dissanguarci col petrolio ed il metano. Con evidenti vantaggi per l’inquinamento: mistero della psiche dei verdi!
Nel 1978 fu introdotta la legge n°372, così detta dell’equo canone. Fino allora le case in affitto si trovavano e si considerava generalmente che la casa incidesse per 1/3 del reddito. In apparenza, il canone era equo e perfino generoso. Ma la legge conteneva un meccanismo di indicizzazione assolutamente iniquo, perché ignorava di fatto l’inflazione, che era già esplosa nel 1974. Infatti i canoni divennero ben presto illusori e sfociarono in una pratica espropriazione delle abitazioni. Inoltre la legge rendeva quasi impossibile riavere il possesso degli immobili perfino in caso di morosità. Gli italiani, che da sempre ne avevano avuta la propensione, si indirizzarono massicciamente alla proprietà dell’alloggio (con indici anche doppi del resto di Europa), con conseguente aumento incontrollato dei prezzi di acquisto dei pochi immobili liberi. Questo comportò anche la fine della mobilità del posto di lavoro.
Dopo un pò venne di moda la morosità permanente degli inquilini degli enti pubblici e previdenziali. Il tutto perfezionato dall’imposizione agli Enti di indirizzare l’affitto per fini sociali. Il primo risultato fu che gli enti previdenziali iniziarono a svendere agli inquilini gli alloggi divenuti fonte di costi anziché di ricavi. Intanto nel 1969 erano state introdotte le pensioni di anzianità e poi nel 1970-71 il governo Andreotti-Malagodi permise anche le pensioni baby nel pubblico impiego. Sembra che fino allora gli enti previdenziali fossero in largo attivo, tanto che ad un certo punto il governo espropriò in più riprese le casse dell’INPS. Ci meravigliamo se le pensioni che prima erano pagate dalla rendita dei contributi previdenziali investiti sono ora pagate dai contributi versati dai lavoratori in servizio, e se non basta sono integrate dalla fiscalità generale (sistema a ripartizione)? Notare che ora la riforma in corso tornerà indietro in qualche modo: ci sono voluti quasi quaranta anni per capirlo!
Mancava ancora qualcosa al disastro? Si! A metà degli anni ’80 i socialisti, imperante il craxismo presero l’ineccepibile decisione di abbattere l’inflazione: riducendo la spesa pubblica? No! Craxi sostituì semplicemente l’inflazione con l’emissione di debito pubblico! Se una banda di falsari decidesse di smantellare la tipografia e passare alle truffe con le cambiali andrebbe meglio? E da allora si è andati avanti allegramente fino ad oggi.
Da molto tempo si sostiene la necessità delle riforme: sono d’accordo, però mi piacerebbe chiamarle controriforme! Ed ora per favore non parliamo di complotti, di commissariamento dell’Europa, dei mercati, della speculazione nostrana e internazionale. Non diamo la colpa all’euro. Non chiamiamo ”situazione di emergenza” uno stato che è cronico. E non insinuiamo che la svolta impressa dal Presidente della Repubblica ed il nuovo governo Monti costituiscano più o meno un colpo di stato. Richiamandoci alla filosofia del diritto: questo è uno “stato di eccezione” (cf l’omonimo studio di G. Agamben): il comportamento di Giorgio Napolitano è stato ed è ineccepibile.
E adesso butto lì una sciocchezza, di quelle che Renzo Tramaglino esponeva all’osteria: se il Presidente avesse fatto appello al Paese indicendo una Assemblea Costituente, forse il Parlamento non avrebbe reagito. Dopo tutto nel 1945 (decreto-legge luogotenenziale 25 giugno 1944 n. 1519)non è che Umberto di Savoia avesse poteri maggiori (visto che lo Statuto era da venti anni carta straccia): implicitamente esercitò l’auctoritas dello “stato di eccezione”.
Però poi alla fine c’è sempre lo stellone d’Italia. Speriamo almeno in quello!
Sitografia
L’ENEL fu una delle tante sciocchezze provocate dai socialisti negli ultimi centocinquant’anni. Purtroppo anche i radicali (spesso benemeriti per importanti iniziative) furono fra i sostenitori della nazionalizzazione. Per superare i problemi dovuti al frazionamento della produzione elettrica nel nostro paese (1270 imprese esercenti) e avere in mano le leve di controllo della politica energetica, sarebbe stato sufficiente adottare l’idea di Mattei: nazionalizzare le linee di distribuzione (del resto la rete interurbana del telefono era pubblica da sempre). Ci sono voluti altri quarantacinque anni per vederla attuata con la costituzione di Enel Linee Alta Tensione S.r.l., oggi Terna. Il cuore del disastro fu la scelta delle modalità di assorbimento delle vecchie aziende e di indennizzo alla proprietà. Trovo conferma su wikipedia che: “Vinsero le posizioni di Guido Carli, governatore della Banca d'Italia e l'indennizzo fu immediato. La posizione di Riccardo Lombardi chiedeva invece la dilazione in quattro anni dei pagamenti, da garantirsi con obbligazioni. Per ottenere l'adozione del suo piano, Carli minacciò le dimissioni, che avrebbero gettato il Paese nel caos a causa del gravissimo attentato alla credibilità del sistema politico-economico che un simile atto avrebbe rappresentato in ottica anche internazionale.” Questa scelta provocò l’immissione sul mercato di una massa di liquidità che l’industria italiana non era in grado di assorbire e portò quindi, per la prima volta, alla finanziarizzazione della nostra economia. Gli amministratori di vertice degli ex monopolisti, un mio amico di allora li chiamava “industriali della bolletta”, si trasformarono in finanzieri e iniziarono a comprare di tutto,molte aziende decotte o che erano incapaci di gestire. La conseguenza fu allora l’innescarsi di un’inflazione che non doveva fermarsi per moltissimi anni, fino a quando Craxi ebbe la bella pensata di sostituirla con il debito pubblico à gogo, e questo non si è fermato più. Allora nacquero anche le premesse di quel futuro disastro che fu l’EGAM, e poi le manovre societarie sulla chimica italiana con la nascita della Montedison ed in seguito dell’Enimont, che portarono alla decadenza e poi alla scomparsa della nostra industria chimica di base. Effetto secondario della cogestione del momento, oltre che del cinismo di alcuni, fu anche la sciagura del Vajont (1963).
L’ENEL fu da subito un carrozzone, perché tutte le strutture operative delle vecchie società (prescindendo se si trattava della Edison, o di una piccola società di provincia) confluirono nel nuovo ente indiscriminatamente, con qualifiche e retribuzioni promosse anche all’ultimo momento. Essere dipendenti dell’ENEL ,per molti anni, significò stare in un ventre di vacca: dirigenti in eccesso, qualifiche gonfiate, stipendi sproporzionati! Poi il turnover rimise le cose a posto e mano a mano, con i nuovi assunti, le relazioni industriali rientrarono nei parametri.
Nello stesso periodo furono rinnovati i contratti collettivi di lavoro. Ultimamente RAI storia ha mandato in onda un vecchio documentario del 1963: “viaggio nell’Italia che cambia” di Ugo Zatterin. La cosa che colpisce lo spettatore di oggi è che allora c’era la piena occupazione e i datori di lavoro intervistati dichiaravano di avere difficoltà a trovare mano d’opera .
Fra i meccanismi che hanno consentito lo sperpero a pioggia di risorse pubbliche devo qui ricordare la Cassa del Mezzogiorno. Questo ente fu istituito in tempi virtuosi, nel 1950, e di certo contribuì positivamente ad incidere sulla questione meridionale, che ci trascinavamo dall’Unità. la legge istitutiva del 10/08/1950 n°646 all’art.1 stabiliva “un piano generale per la esecuzione, durante il decennio 1950-60, di opere straordinarie dirette in modo specifico al progresso economico e sociale dell'Italia meridionale, coordinandolo con i programmi di opere predisposti dalle amministrazioni pubbliche.” In origine i compiti erano delimitati come segue: “Il piano suaccennato riguarda complessi organici di opere inerenti alla sistemazione dei bacini montani e dei relativi corsi d'acqua, alla bonifica, all'irrigazione, alla trasformazione agraria, anche in dipendenza dei programmi di riforma fondiaria, alla viabilità ordinaria non statale, agli acquedotti e fognature, agli impianti per la valorizzazione dei prodotti agricoli e alle opere di interesse turistico.” Però poi la legge subì numerose varianti e fu estesa agli investimenti privati con incentivi a fondo perduto calcolati in percentuale dell’investimento Non sono riuscito a reperire i dati, ma a mia memoria sono praticamente certo che la percentuale sia arrivata anche al 50%. Con il progredire della contiguità della politica con gli affari negli anni sessanta e settanta,questo meccanismo, che fino allora era passato abbastanza inosservato si rivelò perverso. Spesso gli studi di fattibilità erano fantasiosi, i preventivi di investimento sistematicamente raddoppiati, le fatture di appoggio gonfiate e spesso di comodo, a volte anche false. In questo modo, investendo in realtà metà del preventivo si poteva ottenere l’intero contributo: cioè fare l’investimento gratis. Se poi la società falliva perché l’analisi dei costi di esercizio e lo studio di mercato erano stati sbagliati, non pagava nessuno. Con questo meccanismo la “Città dei polli” sulla via Pontina fallì e passò di mano più volte. Con l’apertura della tratta Roma Napoli dell’autostrada del sole nel 1963 i dintorni di Frosinone (ed in particolare la zona di Patrica dove nel 1964 lavoravo) esplosero letteralmente di iniziative. Molte poi si tramutarono in cimiteri industriali.
Già nel 1965 ci fu la prima crisi. Persi il lavoro e feci molta fatica a trovarne un altro e a stipendio dimezzato. Ricordo che, quale diretta conseguenza della piena occupazione, era raro trovare un dipendente senza un assegno ad personam in busta paga. Poiché gli assegni ad personam erano riassorbibili per futuri miglioramenti contrattuali, i sindacati ebbero gioco facile nel concordare con le organizzazioni datoriali un generoso aumento dei minimi contrattuali: naturalmente tutti gli assegni ad personam furono immediatamente riassorbiti. Sembra che al momento nessuno si accorse che era stata posta la base per eliminare progressivamente il concetto di “merito”. Un effetto secondario fu un’altra distorsione: poiché tutti i lavoratori andavano inquadrati nel contratto collettivo di settore e i contratti non avevano oneri eguali a pari livello di inquadramento, era antieconomico avere mano d’opera diretta per mansioni non strategiche (pulizie, guardiania, ecc.), che potevano essere inquadrate in contratti meno ricchi. Per esempio in una azienda elettrica, un muratore era comunque un operaio qualificato, ma costava molto di più con il contratto elettrico che con quello edile. Fino allora la soluzione era stata di dare all’elettricista l’assegno ad personam e non darlo al muratore. Dal nuovo contratto diminuì progressivamente la verticalizzazione delle aziende (che era stata incoraggiata da esigenze di razionalizzazione, ed anche dal regime distorsivo dell’IGE) e ci si indirizzò verso l’esternalizzazione e i subappalti. Questa fu la premessa per il lavoro nero e il precariato nelle aziende di servizi e aumentò anche l’incidenza dell’IGE (almeno fino all’adozione dell’IVA nel 1973).
Naturalmente quello fu solo un sassolino: per diventare una valanga era necessario dell’altro e nel 1970 arrivò lo statuto dei lavoratori! Non potendo più licenziare, esternalizzare divenne una necessità assoluta.
Nel frattempo c’era stato il ‘68, che nel mondo ebbe l’effetto di una malattia esantematica: vaccinò e passò. In Italia è diventata una grave malattia cronica. L’effetto più evidente si è avuto nella scuola. Cominciarono gli studenti di architettura a Valle Giulia. Vinsero e ottennero gli esami di gruppo e il trenta facile. Ma nel tempo ai baroni universitari, bravi, dinastici e famigliaristi, un po’ mafiosetti e oppressivi si sono sostituiti altri baroni, con le stesse caratteristiche ma meno bravi. E finalmente nel ’69 è arrivata la liberalizzazione degli accessi all’università, la moltiplicazione dei corsi di laurea e delle pseudo specializzazioni. L’invenzione del 3+2 oggi è difesa anche come esigenza di omogeneizzazione europea, ma a me sembra una cosa sbagliatissima. In un paese dove quasi mai il titolo specifico dà uno sbocco di lavoro corrispondente, il vecchio ordinamento insisteva molto sulla più approfondita preparazione di base e solo negli ultimi anni dava nozioni di indirizzo settoriale, che valevano più come traccia che come preparazione operativa. Poi durante la vita lavorativa “sapevamo di non sapere”, ma eravamo in grado di andare a cercare le nozioni di approfondimento dove stavano. Mi ha molto colpito una frase di un signore, quasi della mia generazione: una volta non si parlava di “saperi” ma di “sapere”. C’era evidentemente ancora l’unità della cultura. Naturalmente lo sfascio è “sceso per li rami” e la scuola secondaria è diventata in molti casi una barzelletta. Per superare una scuola di classe che, per i ceti meno abbienti,non assicurava il diritto allo studio ai giovani di eccellenza, si è prodotta una scuola dove tutti possono arrivare con meriti minimi all’università e lì trovare una pseudo laurea. E’ pur vero che poi si è tentato, specie in tempi recenti, di porre rimedio, ma a me sembra con azioni pasticciate, spesso contraddittorie, vanamente inseguendo i buoi già usciti dalla stalla.
Nel 1973 (guerra del Kippur) ci fu la prima crisi petrolifera seguita nel 1979 (rivoluzione iraniana) dalla seconda crisi petrolifera. Qui è bene aprire una parentesi: l’Italia, dal tempo dell’unità, era l’unico paese in via di sviluppo e poi industrializzato, ad essere totalmente privo di fonti di energia. Noi siamo partiti con l’energia animale e con un po’ di torba e lignite, che non spostavano il problema. La I° guerra mondiale ci costrinse ad importazioni di carbone enormi, che forse furono il nostro primo pesante debito verso l’estero. L’unica vera rivoluzione energetica fu l’idroelettrica: credo che negli anni ’30 avessimo raggiunto quasi l’autosufficienza, dopo aver elettrificato il trasporto pubblico (tram, filobus, ferrovie). Comunque alla fine degli anni ’50 le potenzialità dei nostri bacini erano praticamente esaurite (oggi l’idroelettrico contribuisce col 15,8 % del fabbisogno totale). Dopo “l’atomo per la pace” (Ginevra 1955) la prima risposta alla richiesta di energia venne con le centrali di Latina, Garigliano, Trino Vercellese e poi di Caorso e Montalto di Castro (che col referendum non fu “riconvertita” ma smantellata). Nel 1986 ci fu il disastro di Cernobyl. Si trattava di una centrale progettata e costruita con tecnologie inadeguate, gestita da incompetenti e fatta esplodere per eseguire un esperimento progettato e condotto da folli. Ma grazie all’emotività cavalcata dai nostri giornalisti, che sono maestri del pressappochismo e degli effetti di colore, con la promozione ad esperto di tecnologie nucleari di un modesto esercitatore di meccanica razionale (cito Edoardo Amaldi), evitando accuratamente l’intervento dei docenti universitari di impiantistica nucleare (p.e. il prof.Mario Silvestri), malgrado le centrali italiane non avessero mai dato fastidi, si giunse trionfalmente al referendum del 1987. Da allora il nostro sviluppo ha inseguito irrimediabilmente i prezzi del petrolio (e dell’energia nucleare vendutaci dai francesi). Cerchiamo di capirci, io non sostengo che oggi bisognerebbe tornare al nucleare: probabilmente il nucleare è morto per ragioni economiche (Alberto Clò – Si fa presto a dire nucleare) e nel frattempo le tecnologie per le fonti rinnovabili sono progredite enormemente. Ma allora le nostre centrali erano convenienti e le rinnovabili ancora un’utopia. La centrale di Latina costò circa 20 miliardi di lire,equivalenti a 140 milioni di euro, e fu realizzata in sei anni. Non so quanto costassero Caorso e poi Montalto, ma non ricordo che allora le obiezioni fossero di carattere economico. Senza quel referendum avremmo potuto aspettare lo sviluppo delle energie rinnovabili, senza dissanguarci col petrolio ed il metano. Con evidenti vantaggi per l’inquinamento: mistero della psiche dei verdi!
Nel 1978 fu introdotta la legge n°372, così detta dell’equo canone. Fino allora le case in affitto si trovavano e si considerava generalmente che la casa incidesse per 1/3 del reddito. In apparenza, il canone era equo e perfino generoso. Ma la legge conteneva un meccanismo di indicizzazione assolutamente iniquo, perché ignorava di fatto l’inflazione, che era già esplosa nel 1974. Infatti i canoni divennero ben presto illusori e sfociarono in una pratica espropriazione delle abitazioni. Inoltre la legge rendeva quasi impossibile riavere il possesso degli immobili perfino in caso di morosità. Gli italiani, che da sempre ne avevano avuta la propensione, si indirizzarono massicciamente alla proprietà dell’alloggio (con indici anche doppi del resto di Europa), con conseguente aumento incontrollato dei prezzi di acquisto dei pochi immobili liberi. Questo comportò anche la fine della mobilità del posto di lavoro.
Dopo un pò venne di moda la morosità permanente degli inquilini degli enti pubblici e previdenziali. Il tutto perfezionato dall’imposizione agli Enti di indirizzare l’affitto per fini sociali. Il primo risultato fu che gli enti previdenziali iniziarono a svendere agli inquilini gli alloggi divenuti fonte di costi anziché di ricavi. Intanto nel 1969 erano state introdotte le pensioni di anzianità e poi nel 1970-71 il governo Andreotti-Malagodi permise anche le pensioni baby nel pubblico impiego. Sembra che fino allora gli enti previdenziali fossero in largo attivo, tanto che ad un certo punto il governo espropriò in più riprese le casse dell’INPS. Ci meravigliamo se le pensioni che prima erano pagate dalla rendita dei contributi previdenziali investiti sono ora pagate dai contributi versati dai lavoratori in servizio, e se non basta sono integrate dalla fiscalità generale (sistema a ripartizione)? Notare che ora la riforma in corso tornerà indietro in qualche modo: ci sono voluti quasi quaranta anni per capirlo!
Mancava ancora qualcosa al disastro? Si! A metà degli anni ’80 i socialisti, imperante il craxismo presero l’ineccepibile decisione di abbattere l’inflazione: riducendo la spesa pubblica? No! Craxi sostituì semplicemente l’inflazione con l’emissione di debito pubblico! Se una banda di falsari decidesse di smantellare la tipografia e passare alle truffe con le cambiali andrebbe meglio? E da allora si è andati avanti allegramente fino ad oggi.
Da molto tempo si sostiene la necessità delle riforme: sono d’accordo, però mi piacerebbe chiamarle controriforme! Ed ora per favore non parliamo di complotti, di commissariamento dell’Europa, dei mercati, della speculazione nostrana e internazionale. Non diamo la colpa all’euro. Non chiamiamo ”situazione di emergenza” uno stato che è cronico. E non insinuiamo che la svolta impressa dal Presidente della Repubblica ed il nuovo governo Monti costituiscano più o meno un colpo di stato. Richiamandoci alla filosofia del diritto: questo è uno “stato di eccezione” (cf l’omonimo studio di G. Agamben): il comportamento di Giorgio Napolitano è stato ed è ineccepibile.
E adesso butto lì una sciocchezza, di quelle che Renzo Tramaglino esponeva all’osteria: se il Presidente avesse fatto appello al Paese indicendo una Assemblea Costituente, forse il Parlamento non avrebbe reagito. Dopo tutto nel 1945 (decreto-legge luogotenenziale 25 giugno 1944 n. 1519)non è che Umberto di Savoia avesse poteri maggiori (visto che lo Statuto era da venti anni carta straccia): implicitamente esercitò l’auctoritas dello “stato di eccezione”.
Però poi alla fine c’è sempre lo stellone d’Italia. Speriamo almeno in quello!
Sitografia
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