venerdì 1 gennaio 2016

Capodanno 2016



Auguri a tutti, in particolare a tutti gli amici. Mi trovo a letto in uno stadio praticamente terminale di un cancro al pancreas già in metastasi, e questa situazione mi ha ricordato alcuni appunti che avevo scritto di getto anni fa, e che ora mi sembrano attuali. Con l'occasione ho deciso anche di postare  la storia della mia famiglia, alla quale finora l'accesso era stato limitato ai familiari.

Per una ecologia della morte

16 ottobre 1997 - Osservazioni sulla morte
Il cattolicesimo ha alcune formule piuttosto interessanti, come le “virtù teologali” e le “virtù cardinali”. Fra queste formule ci sono i “novissimi”. Io che non sono cattolico porrei i “novissimi” così: “realtà” – nascita – morte – “realtà”. Un’altra volta parlerò della realtà come la vedo io.
Della nascita ha parlato bene Judith Viorst in “Distacchi “. Ma sulla morte non ha detto nulla di penetrante né di convincente.
Tre osservazioni.
La prima è di analizzare la morte di quelle persone che ho visto morire bene: mio suocero e forse zio Angiolo; nonché di quelle che sarebbero morte bene se avessero potuto vivere la loro morte: nonna Giulia, mamma Luisa e zia Annamaria, che è morta di colpo.
La seconda è di analizzare la morte di quelle persone che ho visto morire male: mio padre innanzi tutto, forse Peppino Piemonte.
La terza è di vedere perché certe persone giovani hanno il terrore dell’idea della morte ed altre non l’hanno. Questo è del tutto indipendente dalla fede religiosa, che anzi non esorcizza né sublima la morte, ma secondo me aumenta e istituzionalizza proprio il terrore.
Il vero punto di partenza è di rendersi conto che nessuno è mai tornato indietro nel senso che interesserebbe qui. Non parlo solo in senso effettivo ma anche nel senso dei miti e della tradizione. Gesù Cristo è morto, è risorto ma non ha detto nulla della sua esperienza del durante e del dopo: e come poteva ? Era andato direttamente al suo posto di Dio! Lazzaro avrebbe potuto ma non ne ha parlato. Gli antichi come Orfeo o Ulisse o Enea avevano una idea dell’altro mondo che non ci serve, e comunque non hanno parlato mai dell’atto del morire, che è quello che mi interessa qui.
Allora si potrebbe tentare un approccio diverso, alla Desmond Morris. Cominciamo a vedere che idea hanno della morte gli animali. Poi vediamo che idea ne hanno gli uomini nelle società primitive e quindi per induzione gli uomini preistorici. Poi vediamo che idea ne hanno gli antichi e le persone delle classi socialmente e culturalmente inferiori.
Si potrebbe vedere che la morte è omogenea col nascere per molti aspetti, non solo perché vi è legata come causa ed effetto.
Forse potremmo accorgerci che la morte che intendiamo noi e della quale ci preoccupiamo e addirittura abbiamo terrore, non è quella fisiologica ma è un prodotto culturale.

4 luglio 2009 – L’anima - Il teorema del gatto

Secondo la bibbia Dio creò gli animali come il resto del mondo, e basta. Invece all’uomo, dopo averlo fabbricato, gli alitò lo spirito. Ciò significa che ab immemorabile noi consideriamo gli animali, anzi le bestie, come delle macchine o dei robot: questo è stato formalizzato nella scienza post settecentesca all’epoca del meccanicismo.
Quindi gli uomini hanno l’anima e le bestie no: sennò come facevamo a mangiarle, accettando che le bestie si mangiassero fra loro? Gli antichi mica avevano il concetto di catena alimentare (che ci permette di non essere vegetariani, come io non sono e non voglio essere). Del resto ogni volta che ha fatto comodo abbiamo deciso che gli schiavi non avevano l’anima, anzi forse nemmeno le donne.
A questo punto vorrei cercare di capire che cosa è l’anima. Siccome non sono interessato ai metodi aristotelici e della teologia, ma al metodo scientifico, proverei a cercare le differenze fra noi e gli animali.
Intanto tutto quello che l’etologia ci mostra essere in comune non attiene all’anima.
Nemmeno ciò che analogamente ci mostra la neurofisiologia.Ma nemmeno la trasmissione culturale dei comportamenti e delle conoscenze, è ormai provato dall’evoluzionismo culturale, è una nostra esclusiva. Noi siamo semplicemente situati al gradino più alto dell’intelligenza, che, secondo le religioni, negli animali sta tutta nel sistema nervoso. Perché noi dovremmo invece averla nell’anima? Sembra che la differenza la faccia l’autocoscienza. Ma in certa misura l’hanno anche gli animali. L’unica differenza essendo l’accoppiata coscienza-linguaggio.
A cosa ha portato questo plus? Alla possibilità di parlarci addosso con una grande sega mentale che si chiama filosofia. Non mi sembra sufficiente per avere l’esclusiva di un’anima immortale.
A questo punto, poiché dei problemi della filosofia l’unico reale è quello etico, rimane il teorema del gatto. Quale è la differenza fra me e il gatto: il libero arbitrio. Se l’anima si riduce a questo, la risposta è: il gatto può fare solo il gatto, io posso fare l’uomo oppure essere un quaquaraquà, cioè perdermi. Allora io faccio come il gatto: faccio l’uomo senza se e senza ma. Punto.

24 febbraio 2011 -   Tre parole: patria, eutanasia, eugenetica
I romani avevano inventato la deletio memoriae e la applicarono almeno a Nerone. Era inutile perché oggi a noi dei delitti di Nerone non ce ne frega più niente. A volte però i grandi assassini oltre i loro delitti contingenti per quanto tremendi ne commettono altri che rimangono e perdurano nella storia e nel tempo. Il nazismo e il fascismo hanno stravolto per sempre il significato di tre parole: Patria, eugenetica, eutanasia.
Quando io ero ragazzo la Patria era veramente una parolaccia per tutti, ma non nel senso pubblico, politico: anche nel senso intimo e emozionale. Dopo lo sdoganamento della destra e di Fini e la sua fine politica, la parola Patria è stata ripresa e legittimata anch'essa, sdoganata. Ma nel farlo gli è rimasto l'odore dolciastro dei cadaveri; e si vede in questo 150º anniversario dell'unità, in cui si festeggia l'attribuzione a una dinastia indegna, che aveva conquistato militarmente l'Italia al di là della componente patriottica, che pur c'era nell'impresa dei Mille e dei meridionali che ad essa si erano associati. In queste celebrazioni centenarie sarebbe invece stata necessaria una vera cesura rispetto a tutti quanti i disastri che è stato il Regno d'Italia, non inferiore a quelli che dal Rinascimento in poi erano venuti per le divisioni, per la rivalità delle città, gli appelli agli stranieri fatti dai papi, eccetera eccetera. Mettere una cesura sarebbe stato necessario già dal 2 giugno '48, nella nuova Costituzione. Del resto i paesi civili (a parte la Francia che ancora non sa se festeggia il 1789 o il '92) hanno solo una data per festeggiare l'unità della nazione. Noi abbiamo il 4 novembre, abbiamo il 2 giugno, abbiamo il 25 aprile, abbiamo il 1 maggio, e adesso abbiamo pure il 17 marzo. Avremmo dovuto adottare solo il 2 giugno e proporre agli studenti e nelle trasmissioni della televisione, invece di queste cazzate del Risorgimento (che sono anche mistificate in larga parte), lo studio dei lavori preparatori della Costituzione. Si vedrebbe quello che è stato il miracolo dell'Assemblea Costituente che, partendo dall'assunzione dell'auctoritas (da parte della Consulta) convocò i comizi elettorali. Si mostrerebbe poi la qualità di quegli uomini che, pur nella opposizione di interessi (alcuni dei quali cinici e certamente non legittimi) comunque riuscirono a conciliarli in una costituzione, oggi assolutamente da aggiornare, ma che allora è stata la più bella costituzione del mondo.
Abbiamo poi il guaio della eutanasia, che suscitata dal caso Englaro ha permesso agli atei devoti per farsi, per ingraziarsi una chiesa inqualificabile di arrivare oramai alle soglie della legge sul cosiddetto testamento biologico, cosiddetto perché non lo è. Ma la cosa più grandiosa e che poi durerà certamente ancora di più nel tempo è il fatto che il movimento per recuperare il valore pulito della parola eutanasia ha spinto la Chiesa cioè ha svegliato il can che dormiva per passare dalla visione di San Tommaso alla visione dell'embrione come persona e da lì probabilmente non riusciremo più a trarci d'impaccio.

Sabato 5 marzo 2011 - Testamento biologico
E’ attualmente in discussione alla Camera la legge Calabrò, sul cosiddetto “testamento biologico”.
Dopo la morte di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, la volontà di formalizzare le “ dichiarazioni anticipate di trattamento di fine vita” si era fatta pressante.
Mi sarebbe sembrato sufficiente codificare le modalità di rilascio e di registrazione della dichiarazione, e lasciare che alla fine i medici, in scienza e coscienza, si regolassero come avevano da sempre fatto.
Ma i politici hanno deciso che occorreva mettere dei paletti, vanificando l'autodeterminazione della persona sulla propria vita e sulla propria morte.
Il capolavoro è stato (art. 3/5) quello di vietare il rifiuto dell’alimentazione ed idratazione forzata, pittorescamente presentata al pubblico come “mangiare e bere”, equivalente di imboccare un malato col cucchiaino. Se gli “atei devoti”, capofila dell’idea, pensavano di fare un favore alla Chiesa, credo le abbiano offerto un boccone avvelenato, dopo quello della legge 40 sulla fecondazione assistita.
Il dibattito che ne è conseguito mi ha fatto sorgere, per simmetria, analoghe considerazioni a proposito della nascita e mi sono accorto che anche la gestione della nascita si è allontanata dal comune sentire del secolo scorso.
Quello che mi interessa in questo momento è una riflessione generale.
Ora vorrei aprire due parentesi, che mi servono per dare chiarezza alla tesi che voglio proporre.
Mi richiamo alla formalità della teoria degli insiemi (Picone, Analisi matematica I): se considero un insieme di eventi (per esempio gli innumerevoli eventi della vita), posti ordinatamente in un intervallo, l’insieme può essere aperto o chiuso a seconda che gli estremi (nel nostro caso la nascita a sinistra e la morte a destra dell’intervallo) facciano parte dell’insieme o no. Se l’intervallo è aperto e gli eventi sono infiniti, si raggiunge la frontiera con la teoria dei limiti.
La frontiera destra e sinistra rappresentano due “stati di eccezione”. Con questa espressione mi rifaccio al Giorgio Agamben di “Stato di eccezione”.
Questo concetto è usato in filosofia del diritto (e discipline affini) per segnalare un caso di aporia fra la vigenza della legge ed il suo cambiamento che, in modo molto sottile, porta alla discussione se il cambiamento della legge sia ancora un fatto giuridico oppure no. E qui si richiama il diritto dei romani per la distinzione fra “auctoritas” prerogativa del senato e “potestas” prerogativa dei consoli, dei dittatori e poi degli imperatori.
A me sembra che questi concetti possano essere utilmente estesi alla vita dell’individuo: credo che la medicalizzazione della nascita e della morte, almeno nel mondo sviluppato, abbia espunto dalla vita questi due eventi ineluttabili, che prima ne facevano parte integrante. In altri termini mi sembra che la vita non sia più un intervallo “chiuso”, ma “aperto”
Il mio tentativo è di spiegare all’interno di queste premesse il significato profondo della trasformazione che stiamo vivendo.
Fino a non molto tempo fa, l'uomo trascorreva tutta la vita sotto il controllo della potestas (del “pater familias” o del padrone o della legge), ma affrontava i due grandi misteri della frontiera della vita, cioè la nascita e la morte, sotto l'egida della auctoritas.
Vale forse la pena di ricordare, a vantaggio dei più giovani, quale sia stato da sempre il rapporto della vita con la nascita e la morte.
Per comodità mi riferisco ai costumi della società cattolica italiana, quale io l’ho conosciuta nella mia giovinezza; ma ovviamente tutte le civiltà hanno i loro riti di ingresso e di commiato.
Fino alla prima metà del secolo scorso, la normalità era di nascere in casa nel letto della mamma e morire in casa nel proprio letto. L’ospedale era in entrambi i casi un’eccezione, sfortunata.
La vita iniziava nel momento in cui ai maschi veniva intimato l'extra omnes, mentre le donne di casa, la levatrice e le vicine incominciavano a scaldare l'acqua. Durante il travaglio esse esercitavano l’”auctoritas”. La nascita, e quindi lo stato di eccezione, finiva nel momento del primo vagito e il bambino, pur rimanendo affidato per alcuni anni alle cure delle donne, entrava sotto la “potestas” del “pater familias” (che infatti si chiamava patria potestà), cioè della legge. E San Tommaso era tassativo nel riconoscere questo momento come l’inizio dell’ individuo (a prescindere dal rispetto dovuto all’embrione)!
Il battesimo, che faceva parte del rito della nascita e chiudeva un breve prolungamento dello stato di eccezione, nelle buone famiglie cattoliche si impartiva prestissimo (nella nostra famiglia tutti siamo stati battezzati il giorno dopo). Adesso si battezza dopo mesi, perché si deve fare un grande pranzo, perché la mamma deve essere in forma, elegante e pronta pure lei per la “mangiata”. Poi ci devono essere un sacco di regali. Qui tutto è importante meno che il sacramento: non è più il rito d'ingresso, è un'altra cosa. Per inciso la stessa cosa vale per la prima comunione, per la cresima e per il matrimonio: ma questo è un altro discorso
Ora si nasce in ospedale: la nascita è medicalizzata. E se l’inizio della vita si deve pur sempre collocare a sinistra del campo, la frontiera si deve allontanare asintoticamente verso un punto situato nove mesi a sinistra: essa non è più la nascita ma il concepimento. Che non si può solennizzare perché nessuno ha registrato quel momento e il battesimo solennizza questo ingresso nella vita quando è avvenuto già da nove mesi. Ora la nascita è un punto esterno all’intervallo e non è più uno stato di eccezione e si esercita sotto la “potestas” dei medici.
(L’unico fatto positivo é stato per me, come ora per molti altri padri, essere stato consapevole della paternità avendo assistito al parto, e non progressivamente nel tempo come era prima: mi sembra molto bello, ma è un po’ poco rispetto ai disastri su cui stiamo riflettendo.)
A sua volta la fine della vita cominciava quando si chiamava il prete per l'estrema unzione e, se il malato era in grado di riceverla, anche per l'ultima comunione che non a caso si chiamava il “viatico”. A nessuno sarebbe sembrato possibile evitare questo rito per non impressionare il malato: il malato era cosciente che stava per morire e il prete formalizzava la sentenza (addolcita dalla possibilità che la grazia sacramentale potesse farlo guarire). Il sacerdote non esercitava una "potestas", esercitava una "auctoritas". Noi invece viviamo ora sotto l’imperativo di diventare longevi a qualsiasi costo: snelli, scattanti e possibilmente belli. Questo non è per mantenere efficienti gli strumenti della parola, dell’udito, della vista, delle gambe, necessari alla permanenza della coscienza. La ragione è solo quella di esorcizzare la morte ed allontanarla asintoticamente verso un punto che non fa più parte della vita. Naturalmente noi solennizziamo ancora la morte. Si, ma con il funerale (e quell'orrenda nuova usanza degli applausi), quando l’interessato non c’è più.
La morte è completamente espropriata ed è ormai un concetto solamente medico: topologicamente l’ospedale costituisce la frontiera destra del campo.
E a conferma credo che il sacramento dell’estrema unzione sia oggi piuttosto desueto.
Anche la morte non è più uno stato d’eccezione e all’auctoritas del rito si sostituisce la potestas del medico e della legge sul fine vita: si muore col permesso della legge!
Tutto questo a me sembra il simbolo della tragedia che ha travolto troppi dei significati della nostra esistenza per affidarli ai vari talk show e reality che stanno perfezionando l'alienazione dell’homo videns occidentale.
Non sarò per caso un ateo di rito cattolico preconciliare?

12 ottobre 2011 – Il momento della morte e della nascita Ho capito il perché la Chiesa abbia senza atti solenni e formali, ma quasi in sordina, cambiato il momento della morte e della nascita. Per un creazionista l’anima viene immessa in un momento singolare e tolta in un momento altrettanto singolare. Per un evoluzionista la vita si determina in un processo continuo e anche la morte avviene progressivamente, basta pensare alle malattie neurodegenerative e salvo casi eccezionali: lo stesso infarto forse non è così istantaneo. Certo se vengo giustiziato con la zampa di un elefante forse la cosa è praticamente istantanea.
Finchè era accettata dai popoli del Libro la descrizione della creazione di Adamo, il feto era un pupazzo di argilla e l’uomo era di nuovo tale: “memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris”. Ma nel momento che il bambino diventa tale a poco a poco nel corso della gravidanza e l’uomo muore non istantaneamente occorreva determinare un nuovo istante per la creazione dell’anima e per la sua entrata nell’eternità. Così senza tanto chiasso e smentendo in sordina S.Tommaso la nascita avviene al momento della fecondazione ed è stata accettata senza strilla la morte cerebrale al posto di quella cardiaca!

23 novembre 2011 Un mio amico diceva sempre: “oggi ci siamo, domani non ci sarete”!
Al di là della battuta, posto che l’unica cosa certa è la nostra morte e che la vita tutto sommato è anche breve, a me sembra che la curiosità sul dopo, che esprime molta gente, sia solo una forma di ansia.
Se invece ci chiediamo perché dalla notte dei tempi la domanda del dopo è stata posta anche con molta serietà è solo perché ha il risvolto morale, cioè sul nostro comportamento in vita.
Ora se non c’è nulla, pazienza, se c’è qualcosa di serio è meglio essersi comportati bene “veluti si deus daretur”, e qui si inserisce il “teorema del gatto”.

sabato 3 dicembre 2011

Il dissesto dell'economia italiana - gli inizi, anni '70

Premessa - L'Italia dal dopoguerra alla globalizzazione: il punto sulla situazione.
Cominciamo dalla fine. Sia i media, sia i politici (nazionali ed internazionali) si basano ancora sul tabù dello sviluppo rimasto inalterato dai tempi delle prime teorie economiche elaborate nel settecento. Malgrado tutti i perfezionamenti teorici e formali, si finge di ignorare che il concetto di sviluppo ha un sottostante postulato, cioè che la terra sia illimitata come capienza per la popolazione e disponibilità di risorse agricole ed estrattive: diretta conseguenza è sempre stato (dopo aver cancellato Malthus) il considerare l'aumento di popolazione come un fatto positivo (anche a prescindere dalle imbecillità del "numero è potenza "). Infatti l'incremento di popolazione comporta un elevato rapporto fra la popolazione attiva e la parte passiva, vecchi bambini e finora donne. Esistono teorie basate sullo steady state, ma bisogna andarle a cercare e non fanno parte della ideologia ufficiale. Basti pensare a come il rapporto del MIT per il Club di Roma è stato in questi quarant'anni contrastato e/o ignorato.
La recente crisi dalla quale non sembra si stia uscendo, è stata il primo segnale che la globalizzazione è ormai totale e che siamo arrivati a scontrarci con i limiti del pianeta. L'Italia è arrivata a questo appuntamento nelle peggiori condizioni: politiche, sociali, sindacali, economiche. Per questo sono persuaso che da questa crisi usciremo molto male, con un differenziale negativo rispetto agli altri paesi sviluppati, come del resto lo abbiamo sempre avuto per la maggior parte dei 150 anni dall'Unità. Fa eccezione il breve periodo del miracolo economico, periodo che, temo, sia irriproducibile in quanto legato strutturalmente alla situazione psicologica del dopoguerra. Vorrei analizzare la vicenda italiana partendo di lì.

1963 - L’anno in cui si verificarono alcuni eventi che, come il battito d’ali della farfalla in Cina, innescarono la sequenza di errori che hanno portato al presente disastro. Che non è ancora completo! 
Di seguito riporto, in base ai miei ricordi personali alcuni dei fatti e delle sequenze che a mio avviso giustificano l’assunto. Il motivo è che sento continuamente dire, specialmente dai media, che i guai presenti non sono cominciati oggi, ma da venti anni. Non è vero: sono cominciati quasi cinquanta anni fa. Temo che ormai sia rimasta pochissima gente che ha vissuto e può ricordare quei tempi e quindi come sopravvissuto mi propongo di darne testimonianza. Tuttavia tralascerò di ricordare alcuni guasti che ho visto da vicino, come la calata dei socialisti nell’ENI negli anni ottanta, lo scandalo dei soldi dati alla “casta” fra rimborsi e vitalizi e tanti altri fatti che, per riguardare tempi abbastanza recenti, dovrebbero essere presenti anche a quelli più giovani di me.
 
Alla fine di ottobre del 1962 era morto Enrico Mattei. Giuseppe Saragat (l’anno dopo sarebbe diventato Presidente della Repubblica) era ministro degli esteri con Fanfani. Insieme a Moro aveva ormai varato la nuova era del centro-sinistra, ed era già legge la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’ENEL andava strutturandosi. In quell’anno io ero ancora alla centrale nucleare di Borgo Sabotino (LT) e, mano a mano che si completava il commissioning, stavo firmando i verbali di passaggio degli impianti dall’Agip Nucleare all’ENEL.

L’ENEL fu una delle tante sciocchezze provocate dai socialisti negli ultimi centocinquant’anni. Purtroppo anche i radicali (spesso benemeriti per importanti iniziative) furono fra i sostenitori della nazionalizzazione. Per superare i problemi dovuti al frazionamento della produzione elettrica nel nostro paese (1270 imprese esercenti) e avere in mano le leve di controllo della politica energetica, sarebbe stato sufficiente adottare l’idea di Mattei: nazionalizzare le linee di distribuzione (del resto la rete interurbana del telefono era pubblica da sempre). Ci sono voluti altri quarantacinque anni per vederla attuata con la costituzione di Enel Linee Alta Tensione S.r.l., oggi Terna. Il cuore del disastro fu la scelta delle modalità di assorbimento delle vecchie aziende e di indennizzo alla proprietà. Trovo conferma su wikipedia che: “Vinsero le posizioni di Guido Carli, governatore della Banca d'Italia e l'indennizzo fu immediato. La posizione di Riccardo Lombardi chiedeva invece la dilazione in quattro anni dei pagamenti, da garantirsi con obbligazioni. Per ottenere l'adozione del suo piano, Carli minacciò le dimissioni, che avrebbero gettato il Paese nel caos a causa del gravissimo attentato alla credibilità del sistema politico-economico che un simile atto avrebbe rappresentato in ottica anche internazionale.” Questa scelta provocò l’immissione sul mercato di una massa di liquidità che l’industria italiana non era in grado di assorbire e portò quindi, per la prima volta, alla finanziarizzazione della nostra economia. Gli amministratori di vertice degli ex monopolisti, un mio amico di allora li chiamava “industriali della bolletta”, si trasformarono in finanzieri e iniziarono a comprare di tutto,molte aziende decotte o che erano incapaci di gestire. La conseguenza fu allora l’innescarsi di un’inflazione che non doveva fermarsi per moltissimi anni, fino a quando Craxi ebbe la bella pensata di sostituirla con il debito pubblico à gogo, e questo non si è fermato più. Allora nacquero anche le premesse di quel futuro disastro che fu l’EGAM, e poi le manovre societarie sulla chimica italiana con la nascita della Montedison ed in seguito dell’Enimont, che portarono alla decadenza e poi alla scomparsa della nostra industria chimica di base. Effetto secondario della cogestione del momento, oltre che del cinismo di alcuni, fu anche la sciagura del Vajont (1963).
L’ENEL fu da subito un carrozzone, perché tutte le strutture operative delle vecchie società (prescindendo se si trattava della Edison, o di una piccola società di provincia) confluirono nel nuovo ente indiscriminatamente, con qualifiche e retribuzioni promosse anche all’ultimo momento. Essere dipendenti dell’ENEL ,per molti anni, significò stare in un ventre di vacca: dirigenti in eccesso, qualifiche gonfiate, stipendi sproporzionati! Poi il turnover rimise le cose a posto e mano a mano, con i nuovi assunti, le relazioni industriali rientrarono nei parametri.

Nello stesso periodo furono rinnovati i contratti collettivi di lavoro. Ultimamente RAI storia ha mandato in onda un vecchio documentario del 1963: “viaggio nell’Italia che cambia” di Ugo Zatterin. La cosa che colpisce lo spettatore di oggi è che allora c’era la piena occupazione e i datori di lavoro intervistati dichiaravano di avere difficoltà a trovare mano d’opera .

Fra i meccanismi che hanno consentito lo sperpero a pioggia di risorse pubbliche devo qui ricordare la Cassa del Mezzogiorno. Questo ente fu istituito in tempi virtuosi, nel 1950, e di certo contribuì positivamente ad incidere sulla questione meridionale, che ci trascinavamo dall’Unità. la legge istitutiva del 10/08/1950 n°646 all’art.1 stabiliva “un piano generale per la esecuzione, durante il decennio 1950-60, di opere straordinarie dirette in modo specifico al progresso economico e sociale dell'Italia meridionale, coordinandolo con i programmi di opere predisposti dalle amministrazioni pubbliche.” In origine i compiti erano delimitati come segue: “Il piano suaccennato riguarda complessi organici di opere inerenti alla sistemazione dei bacini montani e dei relativi corsi d'acqua, alla bonifica, all'irrigazione, alla trasformazione agraria, anche in dipendenza dei programmi di riforma fondiaria, alla viabilità ordinaria non statale, agli acquedotti e fognature, agli impianti per la valorizzazione dei prodotti agricoli e alle opere di interesse turistico.” Però poi la legge subì numerose varianti e fu estesa agli investimenti privati con incentivi a fondo perduto calcolati in percentuale dell’investimento Non sono riuscito a reperire i dati, ma a mia memoria sono praticamente certo che la percentuale sia arrivata anche al 50%. Con il progredire della contiguità della politica con gli affari negli anni sessanta e settanta,questo meccanismo, che fino allora era passato abbastanza inosservato si rivelò perverso. Spesso gli studi di fattibilità erano fantasiosi, i preventivi di investimento sistematicamente raddoppiati, le fatture di appoggio gonfiate e spesso di comodo, a volte anche false. In questo modo, investendo in realtà metà del preventivo si poteva ottenere l’intero contributo: cioè fare l’investimento gratis. Se poi la società falliva perché l’analisi dei costi di esercizio e lo studio di mercato erano stati sbagliati, non pagava nessuno. Con questo meccanismo la “Città dei polli” sulla via Pontina fallì e passò di mano più volte. Con l’apertura della tratta Roma Napoli dell’autostrada del sole nel 1963 i dintorni di Frosinone (ed in particolare la zona di Patrica dove nel 1964 lavoravo) esplosero letteralmente di iniziative. Molte poi si tramutarono in cimiteri industriali.

Già nel 1965 ci fu la prima crisi. Persi il lavoro e feci molta fatica a trovarne un altro e a stipendio dimezzato. Ricordo che, quale diretta conseguenza della piena occupazione, era raro trovare un dipendente senza un assegno ad personam in busta paga. Poiché gli assegni ad personam erano riassorbibili per futuri miglioramenti contrattuali, i sindacati ebbero gioco facile nel concordare con le organizzazioni datoriali un generoso aumento dei minimi contrattuali: naturalmente tutti gli assegni ad personam furono immediatamente riassorbiti. Sembra che al momento nessuno si accorse che era stata posta la base per eliminare progressivamente il concetto di “merito”. Un effetto secondario fu un’altra distorsione: poiché tutti i lavoratori andavano inquadrati nel contratto collettivo di settore e i contratti non avevano oneri eguali a pari livello di inquadramento, era antieconomico avere mano d’opera diretta per mansioni non strategiche (pulizie, guardiania, ecc.), che potevano essere inquadrate in contratti meno ricchi. Per esempio in una azienda elettrica, un muratore era comunque un operaio qualificato, ma costava molto di più con il contratto elettrico che con quello edile. Fino allora la soluzione era stata di dare all’elettricista l’assegno ad personam e non darlo al muratore. Dal nuovo contratto diminuì progressivamente la verticalizzazione delle aziende (che era stata incoraggiata da esigenze di razionalizzazione, ed anche dal regime distorsivo dell’IGE) e ci si indirizzò verso l’esternalizzazione e i subappalti. Questa fu la premessa per il lavoro nero e il precariato nelle aziende di servizi e aumentò anche l’incidenza dell’IGE (almeno fino all’adozione dell’IVA nel 1973).

Naturalmente quello fu solo un sassolino: per diventare una valanga era necessario dell’altro e nel 1970 arrivò lo statuto dei lavoratori! Non potendo più licenziare, esternalizzare divenne una necessità assoluta.

Nel frattempo c’era stato il ‘68, che nel mondo ebbe l’effetto di una malattia esantematica: vaccinò e passò. In Italia è diventata una grave malattia cronica. L’effetto più evidente si è avuto nella scuola. Cominciarono gli studenti di architettura a Valle Giulia. Vinsero e ottennero gli esami di gruppo e il trenta facile. Ma nel tempo ai baroni universitari, bravi, dinastici e famigliaristi, un po’ mafiosetti e oppressivi si sono sostituiti altri baroni, con le stesse caratteristiche ma meno bravi. E finalmente nel ’69 è arrivata la liberalizzazione degli accessi all’università, la moltiplicazione dei corsi di laurea e delle pseudo specializzazioni. L’invenzione del 3+2 oggi è difesa anche come esigenza di omogeneizzazione europea, ma a me sembra una cosa sbagliatissima. In un paese dove quasi mai il titolo specifico dà uno sbocco di lavoro corrispondente, il vecchio ordinamento insisteva molto sulla più approfondita preparazione di base e solo negli ultimi anni dava nozioni di indirizzo settoriale, che valevano più come traccia che come preparazione operativa. Poi durante la vita lavorativa “sapevamo di non sapere”, ma eravamo in grado di andare a cercare le nozioni di approfondimento dove stavano. Mi ha molto colpito una frase di un signore, quasi della mia generazione: una volta non si parlava di “saperi” ma di “sapere”. C’era evidentemente ancora l’unità della cultura. Naturalmente lo sfascio è “sceso per li rami” e la scuola secondaria è diventata in molti casi una barzelletta. Per superare una scuola di classe che, per i ceti meno abbienti,non assicurava il diritto allo studio ai giovani di eccellenza, si è prodotta una scuola dove tutti possono arrivare con meriti minimi all’università e lì trovare una pseudo laurea. E’ pur vero che poi si è tentato, specie in tempi recenti, di porre rimedio, ma a me sembra con azioni pasticciate, spesso contraddittorie, vanamente inseguendo i buoi già usciti dalla stalla.

Nel 1973 (guerra del Kippur) ci fu la prima crisi petrolifera seguita nel 1979 (rivoluzione iraniana) dalla seconda crisi petrolifera. Qui è bene aprire una parentesi: l’Italia, dal tempo dell’unità, era l’unico paese in via di sviluppo e poi industrializzato, ad essere totalmente privo di fonti di energia. Noi siamo partiti con l’energia animale e con un po’ di torba e lignite, che non spostavano il problema. La I° guerra mondiale ci costrinse ad importazioni di carbone enormi, che forse furono il nostro primo pesante debito verso l’estero. L’unica vera rivoluzione energetica fu l’idroelettrica: credo che negli anni ’30 avessimo raggiunto quasi l’autosufficienza, dopo aver elettrificato il trasporto pubblico (tram, filobus, ferrovie). Comunque alla fine degli anni ’50 le potenzialità dei nostri bacini erano praticamente esaurite (oggi l’idroelettrico contribuisce col 15,8 % del fabbisogno totale). Dopo “l’atomo per la pace” (Ginevra 1955) la prima risposta alla richiesta di energia venne con le centrali di Latina, Garigliano, Trino Vercellese e poi di Caorso e Montalto di Castro (che col referendum non fu “riconvertita” ma smantellata). Nel 1986 ci fu il disastro di Cernobyl. Si trattava di una centrale progettata e costruita con tecnologie inadeguate, gestita da incompetenti e fatta esplodere per eseguire un esperimento progettato e condotto da folli. Ma grazie all’emotività cavalcata dai nostri giornalisti, che sono maestri del pressappochismo e degli effetti di colore, con la promozione ad esperto di tecnologie nucleari di un modesto esercitatore di meccanica razionale (cito Edoardo Amaldi), evitando accuratamente l’intervento dei docenti universitari di impiantistica nucleare (p.e. il prof.Mario Silvestri), malgrado le centrali italiane non avessero mai dato fastidi, si giunse trionfalmente al referendum del 1987. Da allora il nostro sviluppo ha inseguito irrimediabilmente i prezzi del petrolio (e dell’energia nucleare vendutaci dai francesi). Cerchiamo di capirci, io non sostengo che oggi bisognerebbe tornare al nucleare: probabilmente il nucleare è morto per ragioni economiche (Alberto Clò – Si fa presto a dire nucleare) e nel frattempo le tecnologie per le fonti rinnovabili sono progredite enormemente. Ma allora le nostre centrali erano convenienti e le rinnovabili ancora un’utopia. La centrale di Latina costò circa 20 miliardi di lire,equivalenti a 140 milioni di euro, e fu realizzata in sei anni. Non so quanto costassero Caorso e poi Montalto, ma non ricordo che allora le obiezioni fossero di carattere economico. Senza quel referendum avremmo potuto aspettare lo sviluppo delle energie rinnovabili, senza dissanguarci col petrolio ed il metano. Con evidenti vantaggi per l’inquinamento: mistero della psiche dei verdi!

Nel 1978 fu introdotta la legge n°372, così detta dell’equo canone. Fino allora le case in affitto si trovavano e si considerava generalmente che la casa incidesse per 1/3 del reddito. In apparenza, il canone era equo e perfino generoso. Ma la legge conteneva un meccanismo di indicizzazione assolutamente iniquo, perché ignorava di fatto l’inflazione, che era già esplosa nel 1974. Infatti i canoni divennero ben presto illusori e sfociarono in una pratica espropriazione delle abitazioni. Inoltre la legge rendeva quasi impossibile riavere il possesso degli immobili perfino in caso di morosità. Gli italiani, che da sempre ne avevano avuta la propensione, si indirizzarono massicciamente alla proprietà dell’alloggio (con indici anche doppi del resto di Europa), con conseguente aumento incontrollato dei prezzi di acquisto dei pochi immobili liberi. Questo comportò anche la fine della mobilità del posto di lavoro.

Dopo un pò venne di moda la morosità permanente degli inquilini degli enti pubblici e previdenziali. Il tutto perfezionato dall’imposizione agli Enti di indirizzare l’affitto per fini sociali. Il primo risultato fu che gli enti previdenziali iniziarono a svendere agli inquilini gli alloggi divenuti fonte di costi anziché di ricavi. Intanto nel 1969 erano state introdotte le pensioni di anzianità e poi nel 1970-71 il governo Andreotti-Malagodi permise anche le pensioni baby nel pubblico impiego. Sembra che fino allora gli enti previdenziali fossero in largo attivo, tanto che ad un certo punto il governo espropriò in più riprese le casse dell’INPS. Ci meravigliamo se le pensioni che prima erano pagate dalla rendita dei contributi previdenziali investiti sono ora pagate dai contributi versati dai lavoratori in servizio, e se non basta sono integrate dalla fiscalità generale (sistema a ripartizione)? Notare che ora la riforma in corso tornerà indietro in qualche modo: ci sono voluti quasi quaranta anni per capirlo!

Mancava ancora qualcosa al disastro? Si! A metà degli anni ’80 i socialisti, imperante il craxismo presero l’ineccepibile decisione di abbattere l’inflazione: riducendo la spesa pubblica? No! Craxi sostituì semplicemente l’inflazione con l’emissione di debito pubblico! Se una banda di falsari decidesse di smantellare la tipografia e passare alle truffe con le cambiali andrebbe meglio? E da allora si è andati avanti allegramente fino ad oggi.
 
Da molto tempo si sostiene la necessità delle riforme: sono d’accordo, però mi piacerebbe chiamarle controriforme! Ed ora per favore non parliamo di complotti, di commissariamento dell’Europa, dei mercati, della speculazione nostrana e internazionale. Non diamo la colpa all’euro. Non chiamiamo ”situazione di emergenza” uno stato che è cronico. E non insinuiamo che la svolta impressa dal Presidente della Repubblica ed il nuovo governo Monti costituiscano più o meno un colpo di stato. Richiamandoci alla filosofia del diritto: questo è uno “stato di eccezione” (cf l’omonimo studio di G. Agamben): il comportamento di Giorgio Napolitano è stato ed è ineccepibile.

E adesso butto lì una sciocchezza, di quelle che Renzo Tramaglino esponeva all’osteria: se il Presidente avesse fatto appello al Paese indicendo una Assemblea Costituente, forse il Parlamento non avrebbe reagito. Dopo tutto nel 1945 (decreto-legge luogotenenziale 25 giugno 1944 n. 1519)non è che Umberto di Savoia avesse poteri maggiori (visto che lo Statuto era da venti anni carta straccia): implicitamente esercitò l’auctoritas dello “stato di eccezione”.
Però poi alla fine c’è sempre lo stellone d’Italia. Speriamo almeno in quello!

Sitografia

mercoledì 19 gennaio 2011

DETTI E CONTRADDETTI

L'arch Chiurazzi (napoletano, gentiluomo, fine intellettuale), nel suo studio di Soprintendente ai monumenti, sito nel castello svevo di Bari, aveva esposto un cartiglio che diceva (pressappoco) così:
"lasciate che il sogno distrugga la vostra vita affinchè la vita non distrugga il vostro sogno"

L'Ozio (nome di penna di mio zio Angiolo Canestri) aveva affisso agli scaffali della sua (importante) biblioteca questo cartiglio:
"E' stolto vivere da poveri per morire da ricchi"
rispose lo "stolto" (che sarei io):
"e se poi non muori?"

Sostiene Vincenzo (cioè io,"quale sono e fui"):
"La vita è una cosa seria, ma non è importante"
Temo si stia diffondendo l'opinione che la vita sia importante ma non seria

lunedì 20 dicembre 2010

In margine al crollo della casa dei gladiatori di Pompei - un ricordo del prof. Giuseppe Nicolosi

Vorrei premettere alcune considerazioni sui recuperi conservativi di manufatti molto vecchi, in muratura di pietra o mattoni, eseguita con malte di calce generalmente cotta a basse temperature in fornaci a legna. Murature antiche anche di vari secoli e spesso in zona sismica.
Sono riflessioni occasionate dal crollo della casa dei gladiatori di Pompei, basate su alcuni ricordi di gioventù e sulle esperienze ed osservazioni maturate poi negli anni.
Mi sono laureato con il professor Giuseppe Nicolosi, che era titolare di Costruzioni di ponti a Roma.
Questo era il terzo corso di scienza delle costruzioni, che oltre ai ponti (allora i carichi mobili si studiavano con le linee d’influenza, e non c'erano i metodi numerici), insisteva sulla meccanica delle terre e molto sui muri di sostegno.
Non avevamo un libro, ma delle ottime dispense: credo le avesse scritte Giorgio Giannelli (che aveva scritto anche le dispense di cemento armato, dette anche “il giannellino”). Allora girava solo il libro di Cestelli Guidi, che Nicolosi giudicava di poco valore e con molti errori. In realtà questo professore era infilato un po’ ovunque e quando lo trovai consulente anche della Sogene, il mio compianto amico (e capo) Maurizio Cartoni mi spiegò che era meglio averlo amico in caso di necessità perché era infilato in tutte le commissioni.
Nicolosi poi era anche “Architetto della Rev. Fabbrica di S. Pietro in Vaticano” successore di Michelangelo, come lui scherzosamente amava definirsi: aveva, nel palazzo del Governatorato, l’ufficio che affacciava sull’abside di San Pietro, che forse è il più bello scorcio di Roma. E io sono stato nel suo studio moltissime volte a correggere la tesi di laurea nell’inverno del 1956. Questo professore aveva alcuni pallini.
Il primo era la teoria del masso illimitato di Coulomb per calcolare i muri di sostegno. Arrivato fresco fresco alla Cogeco, il direttore tecnico, l’ing. Lori, mi diede da progettare un muro di sostegno a Poggio Ameno: appena lo vide mi disse di togliermi dalla testa di usare Coulomb e il muro divenne subito molto snello. Naturalmente aveva ragione lui: credo che stia ancora in piedi. Però nessuno mi toglie dalla testa che sia meglio usare metodi conservativi piuttosto che fidarsi di Santa Pupa. Mi è capitato di verificare muri che erano crollati e le condizioni di Coulomb poi non risultavano mai soddisfatte.
Il secondo era, per la stabilità dei terreni di fondazione, la considerazione del bulbo di influenza e le interferenze fra carichi vicini. Ricordo la visita guidata ad alcuni dissesti avvenuti dalle parti della Garbatella, che anni dopo ho visto ripetersi nei pressi del Caravaggio. L’ultima volta che lo incontrai, dieci anni dopo la laurea, mi regalò la copia di un suo articolo in proposito, con una dedica affettuosa.
Il terzo era la ritrosia ad inserire il cemento armato negli interventi di risanamento e manutenzione delle strutture in muratura. Citava un caso molto interessante di una casa di suore a Roma, a tre o quattro piani e non molto vecchia, dove si spaccavano gli intonaci in continuazione, specialmente al piano terreno. L’edificio era in muratura con orizzontamenti in laterizio armato su cordoli perimetrali. Chiaramente si trattava di uno schiacciamento progressivo della muratura eseguita con malta bastarda con poca calce idrata, forse anche sfiorita. Vennero i soliti luminari e suggerirono di fare una intelaiatura interna di cemento armato che scaricasse i pesi dalla muratura.
Nicolosi prese quattro Sanpietrini (che sono i muratori della fabbrica di S. Pietro), li munì di raschietti ad uncino e per campioni gli fece togliere la malta in profondità e rinzaffare la muratura con malta buona: con molta semplicità e poca spesa risolse il problema.
Come ho già raccontato in questo mio blog, mi sono molto dedicato alla tecnologia del cemento armato (pur essendomi occupato solo marginalmente del calcolo strutturale), ma ho imparato a non mischiare capre e cavoli!
Abbiamo visto troppe volte nelle immagini dei terremoti gli orizzontamenti in c.a. scivolare interi sulle sottostanti strutture in muratura. Eppure molti progettisti prevedono ancora cordolature in c.a. e solette rigide in copertura nei lavori di recupero di strutture in pietra vecchie di secoli nei centri storici.
Io preferisco fare dei semicordoli negli orizzontamenti intermedi, con una soletta armata, sottile e collaborante con le travi ed il tavolato in legno; in copertura un tetto tradizionale in legno e pianelle (con sovrastante isolamento termico, guaina e coppi).
Ed ora entriamo nel merito del crollo della casa dei gladiatori di Pompei .
Intanto, come al solito, è scoppiata la canea giornalistico, politico, mediatica. Come al solito non è stato intervistato neanche un ingegnere per spiegare alla gente cos'era successo. Si è saputo en passant che alla fine degli anni 40 era stato fatto un consolidamento con cordoli di cemento armato e altrettanto en passant si è capito che quella era la causa del crollo.
Mi sembra che la Sovrintendenza abbia circa 170 persone e fra queste dovrebbe certamente esserci una squadretta di manutenzione. Se c’è stato il crollo si deve semplicemente al fatto che non sono stati capaci di prendere quattro operai, demolire il cemento armato e farci una bella coperturina in legno che non sarebbe costata più di 50,000-100,000 € di materiali.
Possibile che nessuno si sia ricordato che il crollo della basilica superiore di Assisi fu dovuto o quanto meno aggravato da un precedente intervento in cemento armato sulla copertura? O sono io che ricordo male?
Negli anni settanta frequentavo la Sovrintendenza di Bari che era retta dall’arch. Chiurazzi e dal suo vice arch. Mola: mi ricordo di un sopralluogo collegiale del Consiglio Superiore con loro e con personaggi del calibro di Gardella e di Quaroni.
Quelli erano tempi! Adesso nelle Sovraintendenze (regionali) ci sono quelli che hanno fatti gli esami di gruppo e ormai anche i loro allievi, magari con la laurea triennale. Poi per rimediare ci si mandano i commissari, che ci capiscono ancora meno.
Nelle mie recenti esperienze ho visto cose oscene causate principalmente da tre fattori:
-la prepotenza dittatoriale degli uffici tecnici dei Comuni e spesso anche della sovraintendenza
-l’uso dei software di progettazione usati senza sufficienti cognizioni sulle ipotesi al contorno e sul campo di validità, con la produzione di montagne di calcoli in automatico che poi nessuno sa leggere.
-la convinzione di molte stazioni appaltanti che si possano dare gli incarichi in base alle simpatie, alle clientele o alle appartenenze politiche. Non sto facendo delle considerazioni morali: alla base c’è la diffusa idea che ingegneri ed architetti siano fungibili, purchè laureati ed abilitati. Eppure nessuno penserebbe che i medici siano fungibili: chi si farebbe operare all’addome da un ortopedico, affrontare una cura oncologica con un medico generico o farsi fare un intervento di prostata da un otorino?
Invece nessuno prima di dare un incarico ad un tecnico gli chiede il suo curriculum: chi fa restauri conservativi nei centri storici non è intercambiabile con chi fa palazzi per uffici o capannoni industriali o è uno strutturista, nè chi fa l'ingegnere industriale od impiantista può occuparsi con competenza di architetura di interni o di urbanistica!
E ora diciamolo: che c’entra con tutto questo il ministro Bondi e la mozione di sfiducia?

giovedì 23 settembre 2010

poesia

“ Il cielo”

Ho osservato il cielo:
è azzurro
con petali di fiordaliso,
ma è blu come il mare all’orizzonte.
Di piccole nuvole è tempestato,
come un diadema di brillanti ornato.
E la nebbia
è il suo sguardo corrucciato.
Se la tempesta con ira ti avvolge
È forse il cielo che vuole la guerra:
ma poi gioisce se il sole splende e la nuvola si arrende.
La notte, con le stelle
ti sorveglia assonnata,
e si addormenta con un sorriso argentata.

Serena Mastrangelo
10/7/2000

Questa poesia mi sembra molto bella.
Era stata scritta da una bambina di nove anni.
Che fina ha fatto la bambina? Ora è una splendida ragazza di venti anni, matricola a medicina.
E la poetessa? Questo non lo so: se c’è ancora è un segreto di quella ragazza!
A proposito: è la mia cara nipotina più vecchia!

sabato 21 agosto 2010

verso una teoria del calcestruzzo

Nel 1957 ero un giovane ingegnere, appena entrato nel mondo del lavoro in una impresa di costruzioni romana, dopo che avevo, con ferrea determinazione, dribblato un osceno e fugace passaggio in un ministero.
Inaspettatamente mi trovai proiettato come borsista a Milano, nella avventura dell’AGIP Nucleare, che Enrico Mattei (conservo incorniciata la lettera di assunzione con la sua firma autografa) aveva voluta con lungimiranza, avviando la costruzione della Centrale Nucleare di Latina.
Così dall’autunno 1958 alla primavera del ’63 rimasi a Latina, dove iniziai occupandomi del controllo di qualità del calcestruzzo fresco e della sua resistenza a rottura. In seguito, allargatesi le mie mansioni, conservai fino alla fine dei lavori la responsabilità del laboratorio prove materiali.
All’inizio l’unico riferimento era ancora il decreto 2228 del 1939 (ci sono voluti altri dieci anni per superarlo), non c’era ancora in Italia l’industria del ready mixed e non ci capiva niente nessuno, università compresa.
Voglio qui ricordare il mio primo mentore, l’ing. Franco Orsenigo (che mi sembrava vecchio, ma aveva solo trentacinque anni), che era il dirigente del cantiere ed era arrivato fresco fresco dalla direzione lavori della diga del Vajont, dove ovviamente la tecnologia del calcestruzzo era la più avanzata in Italia. I primi rudimenti me li feci con uno stage in Gran Bretagna dove, sia pure in modo molto empirico, erano anni luce avanti alle esperienze italiane. In quegli anni fui anche membro dell’American Concrete Association, i cui proceedings erano all’avanguardia mondiale in questo settore.
Nel mio laboratorio furono testati circa 30.000 cubetti di calcestruzzo, sia di produzione che sperimentali: tutti i risultati venivano analizzati col metodo statistico.
Furono anche condotti studi, che portarono ad un finanziamento Euratom per lo studio di applicazioni del calcestruzzo pesante (baritico), soggetto a sollecitazioni termiche per strutture schermanti in calcestruzzo precompresso nei reattori nucleari..
In quegli anni misi le basi per una teoria organica che legasse le variabili indipendenti (di progetto) a quelle dipendenti (specifiche della composizione) per il calcestruzzo.
Poi morì Mattei, venne il ciclone Saragat-Ippolito e l’Enel, con l’inondazione dell’economia italiana dei più che generosi rimborsi alle ex società elettriche (impreparate a gestire liquidità di quella portata), fino alle immeritate fortune di un “verde” dottore in fisica (ch evito di citare per nome, seguendo l’esempio di Carlo Bernardini a proposito di un noto personaggio del mondo accademico), il quale con la complicità dei mezzi così detti di informazione ha dato una mano sostanziale a precipitarci nella situazione energetica attuale (ma questa è un’altra storia).
Così ho continuato saltuariamente e a tempo perso ad occuparmi dell’argomento, mentre facevo parte di quella grande e gloriosa impresa che fu la Sogene .
Poi ho cambiato del tutto mestiere, e il lavoro sul calcestruzzo è rimasto nel cassetto.
Queste pagine riprese ora, con la calma consentita dall’essermi ritirato dal lavoro attivo, mi sono sembrate avere ancora qualche interesse, anche se forse sono superate dai progressi che la materia nel frattempo ha certamente conseguito, e dei quali non mi sono mantenuto al corrente.
Pertanto le sottopongo al giudizio dei cultori della materia per quello che ancora possono valere, dai quali sarà gradito ricevere qualche commento e giudizio.

Leggi o scarica i documenti: Teoria del calcestruzzo,   Allegati